SOMMARIO
CORONAROGRAFIA E ANGIOPLASTICA CORONARICA: PREVENZIONE SECONDARIA POST SINDROME CORONARICA ACUTA
Antonio Santoboni
INDURATIO PENIS PLASTICA
Gianrico Prigiotti
LA VISITA DI IDONEITÀ NELLA MEDICINA DELLO SPORT:
iNDICAZIONI E MODALITÀ D’USO
Sergio Lupo
MIXING
Alessandro Ciammaichella
A TUTTO CAMPO
FARMACI POTENZIALMENTE DANNOSI: INFORMARSI SEMPRE
Giuseppe Luzi
IL PUNTO – LA VERTIGINE DEI SASSOLINI
Angelo Ruffo – Angelo Cervellini
LEGGERE LE ANALISI – URICEMIA
Giuseppe Luzi
IMPARARE DALLA CLINICA – SU UNA RARA LOCALIZZAZIONE DI TUBERCOLOSI OSSEA
Lelio R. Zorzin – Silvana Francipane
BIOS NOVITA’ PER IL MEDICO – ANALISI DEL LIQUIDO SEMINALE: VALORI DI RIFERIMENTO
Adina Massaccesi
CHE SUCCEDE ALLA SANITÀ IN ITALIA?
In precedenti editoriali, in diverso modo, abbiamo affrontato alcuni aspetti “pratici” dello spending review e del suo significato potenzialmente pericoloso sul funzionamento delle strutture sanitarie in Italia. L’esperienza degli ultimi anni, la crisi che investe numerose e qualificate organizzazioni assistenziali, le dichiarazioni del primo ministro Mario Monti prima di dimettersi inducono a ulteriori riflessioni. Riflessioni che basano la loro ragion d’essere sul rapporto critico tra sanità pubblica e privata.
Perché contrapporre sanità pubblica e privata? Questo è in parte già avvenuto nel corso degli anni e, salvo qualche pregevole sistema attuato ed egregiamente funzionante in alcuni regioni del nostro Paese, il contrasto continua a rappresentare uno squilibrio rischioso per prospettare soluzioni realistiche. Si discute di livelli essenziali di assistenza, si afferma la necessità di razionalizzare l’esistente (e chi non sarebbe d’accordo), ma persiste molta confusione sulle modalità attuative. Forse il politico deve comportarsi così: fare annunci su un futuro possibilmente/probabilmente luminoso, ma non è necessario essere filosofi della comunicazione per essere del tutto scettici sulle iniziative ipotizzate. Il futuro è già arrivato, è oggi! Lo stato acquisisce congrue cifre dai contribuenti per fornire assistenza sanitaria. Ma “restituisce” quanto assorbe? Come conciliare un tam tam giusto di informazioni sul potenziale della medicina e poi essere consapevoli che la ricaduta non ci sarà a breve termine. L’industria farmaceutica, fondamentale risorsa qualitativa per alcune aree di ricerca, sembra aver tirato un po’ i remi in barca ed evita investimenti rischiosi.
Sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine compaiono spesso articoli che riguardano la lotta del presidente Obama e le difficoltà che incontra per migliorare la qualità di assistenza sanitaria ed estenderla al ceto sociale più disagiato. Nell’evoluzione dell’economia attuale, nella crisi non risolta e che si protrarrà per anni, alcuni economisti vedono attuarsi una minaccia già in parte concreta: un allargarsi della forbice riguardante la possibilità di accedere alle cure, con una minore copertura assistenziale per i ceti meno agiati, categoria che si allarga sempre più anche perché la popolazione invecchia e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro è ritardato (precariato protratto).
Le strutture private hanno fornito nell’ambito del servizio sanitario un punto di forza per la cittadinanza, talora affrontando notevoli sacrifici per garantire il mantenimento di una qualità operativa eccellente e non subire troppo i danni della crisi in atto e pregressa. Proprio quando una persona credibile e competente come il presidente Monti ammonisce sulla necessità di resettare le modalità di assistenza sanitaria, le strutture come la BIOS S.p.A. possono offrire un’àncora solida di stabilità. La sanità privata offre soluzioni di copertura in tempo reale che altrimenti non potrebbero essere un vero vantaggio per il malato o per chi ha il sospetto di esserlo. Le strutture come la BIOS hanno avuto controlli sul loro servizio e sulla qualità delle procedure che adottano.
In sostanza nasce una riflessione potenzialmente ricca di implicazioni: perché nel privato non confluiscono parte delle operazioni assistenziali che il pubblico non è in grado di fornire? È assai verosimile che, almeno in alcuni settori, l’integrazione tra tempo di richiesta e suo soddisfacimento possa essere agevolmente risolta se le strutture pubbliche trovano il coraggio di delegare al privato (con adeguato ed equilibrato compenso economico) quanto non sono in grado di fare. La richiesta di salute, variamente articolata, è un pressing quotidiano sulle strutture assistenziali e non è l’ultima causa del gran numero di cause medico-legali che fanno un po’ confusamente parlare di “malasanità”.
Con queste riflessioni chiudiamo un impegnativo 2012 e ripartiamo per un efficace 2013, ampiamente consapevoli che nessuna resa è possibile se vogliamo salvaguardare, come cittadini italiani, il modello di welfare che è stato costruito e che rischia ora di sfaldarsi.
CORONAROGRAFIA E ANGIOPLASTICA CORONARICA: PREVENZIONE SECONDARIA POST SINDROME CORONARICA ACUTA
ANGIOGRAFIA CORONARICA
“Con un palloncino accanto al cuore rimesse a posto le arterie coronarie. Rivoluzionario intervento per la prima volta al San Camillo”.
Così titolava il Corriere Della Sera, edizione romana, del 5 Dicembre 1981. Fino ad allora l’angiografia coronarica, il solo metodo affidabile per definire l’anatomia delle arterie del cuore, non prevedeva l’uso di un qualche strumento per togliere le eventuali ostruzioni.
La coronarografia rimane comunque tuttora indicata ogni volta sia necessario visualizzare e quantizzare la patologia delle arterie coronarie e valutare la funzione ventricolare sinistra.
La finalità dell’esame coronaroventricolografico è diagnostica, terapeutica e prognostica e, pertanto, nello stabilirne le indicazioni è necessario valutare se l’esame è indispensabile, utile od inutile ai fini della diagnosi, della terapia e della prognosi.
Gli elementi diagnostici che può offrire la coronarografia sono:
• la sede, il numero e le caratteristiche delle ostruzioni;
• il numero dei vasi interessati;
• la morfologia distale del vaso;
• la presenza o meno del circolo collaterale;
• l’eventuale presenza di ponte muscolare.
Gli elementi diagnostici che può offrire la ventricolografia sinistra sono:
• la valutazione della capacità contrattile del ventricolo sinistro mediante la misurazione della frazione di eiezione;
• il numero delle zone acinetiche o ipocinetiche;
• la presenza di aneurismi;
• l’eventuale insufficienza mitralica da rottura dei muscoli papillari;
• perforazioni settali;
• la presenza di trombi.
La coronarografia, inoltre, può dirimere dubbi sulla presenza o meno di infarto del miocardio in atto o pregresso; ciò si verifica nelle pericarditi, nelle anomalie elettrocardiografiche pseudo- necrotiche quali sono osservabili nelle miocardiopatie primitive, nella sindrome di Wolf-Parkinson-White e in alcuni blocchi di branca che possono mentire o cancellare i segni di necrosi; può dirimere dubbi sul tipo della coronaropatia poiché anche se nella maggioranza dei casi è di origine arteriosclerotica, esistono casi in cui si può proporre una genesi vasospastica, embolica o una trombosi primitiva.
La precisazione del tipo di coronaropatia riveste non soltanto un interesse diagnostico, ma anche prognostico e talvolta terapeutico.
La finalità terapeutica riguarda:
• il trattamento chirurgico per l’eventuale indicazione alla rivascolarizzazione miocardica mediante by-pass aorto-coronarico e/o arterioso;
• la possibilità della disostruzione mediante angioplastica coronarica;
• l’indicazione al solo trattamento medico (nei casi in cui si riconosce la genesi vasospastica con coronarie normali o la genesi embolica, oppure nei casi con impegno coronarico diffuso, con gravissima compromissione ventricolare, dove non è più possibile la terapia chirurgica).
Il terzo importante criterio di indicazione della coronaroventricolografia è la finalità prognostica, che è in funzione diretta del numero dei rami colpiti e della gravità della compromissione ventricolare sinistra. Numerosi dati della letteratura hanno ormai provato in maniera inconfutabile che la storia naturale, ma soprattutto la mortalità del coronaropatico è in funzione diretta del numero dei rami colpiti e della gravità della compromissione ventricolare sinistra (1, 2, 3).
ANGIOPLASTICA CORONARICA
La disostruzione coronarica, mediante angioplastica coronarica, è stata una importantissima tecnica innovativa, non chirurgica, per il trattamento di pazienti affetti da cardiopatia ischemica, per ridurre la gravità delle stenosi coronariche, e fare regredire i sintomi e segni della cardiopatia ischemica.
I criteri di successo sono la diminuzione della stenosi visualizzata angiograficamente e il miglioramento del flusso del sangue a valle.
Inizialmente i candidati ideali per l’angioplastica coronarica erano soltanto pazienti monovasali, alla coronarografia, con angina severa di recente insorgenza, minore di un anno, con refrattarietà alla terapia medica e con lesione prossimale concentrica di alto grado, uguale o superiore al 75%, non calcifica e con buona funzione ventricolare sinistra (4, 5).
Sono passati molti anni da quell’inizio, il rapido evolversi della tecnologia e della tecnica hanno sempre più allargato il ruolo della rivascolarizzazione miocardica mediante angioplastica coronarica.
Grazie al notevole miglioramento dei cateteri dilatatori e delle guide mobili, i criteri di selezione delle lesioni hanno subito un continuo evolversi.
Oggi è possibile praticare l’angioplastica coronarica, in pazienti selezionati, che presentino: lesioni anche distali, multiple, eccentriche, di uno o più vasi, del tronco comune, nella occlusione totale (da meno di tre mesi) di un vaso, con o senza riabitazione da circolo collaterale, nei by-pass aortocoronarici e nella cardiopatia dell’ultraottantenne (6).
Inizialmente la procedura era senza l’ausilio dello stent, ma poi, in seguito, con stent metallici o medicati, sia corti o lunghi e di diverso calibro a seconda dell’anatomia coronarica e clinica del paziente, e con la possibilità della trombo aspirazione, nel trattamento della cardiopatia ischemica e delle sindromi coronariche acute.
Inoltre l’angioplastica coronarica, che ha ottenuto i maggiori risultati nella angina stabile, è utilizzata con successo nell’angina instabile refrattaria alla terapia, nell’infarto miocardico acuto, nell’infarto sub-endocardico (occlusione parziale), sia dopo trattamento trombolitico, per risolvere la stenosi residua, sia come trattamento di prima scelta, per ristabilire la perfusione miocardica (7).
PREVENZIONE SECONDARIA DOPO ANGIOPLASTICA CORONARICA
Il decorso post-angioplastica coronarica dipende pertanto da molti fattori anatomici e, inoltre, dalle condizioni fisiopatologiche pre-esistenti come, per esempio, la presenza di un pregresso infarto miocardico, o di compromissione ventricolare sinistra, o di ictus.
Altri fattori da considerare sono l’età, il sesso o la presenza di uno o più fattori di rischio coronarico conosciuti.
Un vaso coronarico con un buon ventricolo sinistro, o tre rami coronarici con un cattivo ventricolo sinistro (bassa frazione di eiezione) sono aspetti molto diversi di sindrome coronarica acuta (3).
Oggi la rivascolarizzazione mediante angioplastica coronarica, sia primaria che rescue, nelle sindromi coronariche acute, con la presenza di centri di cardiologia interventistica operanti 24h su 24h, è andata progressivamente diffondendosi, sia a livello nazionale che regionale e, anche se la possibilità di accesso varia nelle diverse regioni, è aumentata la percentuale delle persone colpite da infarto miocardico trattate con tale metodica, e questo, cosa importantissima, grazie alla riduzione del tempo intercorrente tra l’inizio dei sintomi ed il ricovero (tempo precoronarico) e quello tra l’ingresso in ospedale e il reparto di cardiologia interventistica (door to door).
“Vite salvate, anni di vita salvati, qualità di vita migliorate”. L’irresistibile ascesa dell’angioplastica coronarica!
Molteplici sono i fattori preprocedurali e intraprocedurali che vanno considerati approfonditamente per poter fare una valutazione funzionale globale del rischio coronarico residuo: l’eventuale eccessiva estensione delle lesioni coronariche, il numero dei rami coronarici trattati e/o della sola lesione colpevole dell’evento, sono nozioni di fondamentale importanza da conoscere per l’impostazione di una prevenzione secondaria post-sindrome coronarica acuta.
Le sindromi coronariche acute rappresentano la causa più frequente di ricovero urgente, ed essendo gravate da un rischio elevato di complicanze precoci, l’attenzione e l’impegno assistenziale sono concentrati soprattutto nella fase acuta della malattia. La progressiva riduzione della durata della ospedalizzazione inoltre, se da un lato rende al minimo il decondizionamento fisico, la degenza molto breve orientata quasi esclusivamente al problema acuto, non consente una adeguata stratificazione del rischio coronarico residuo (8). Infatti, il rischio di queste sindromi non si esaurisce nel breve periodo della degenza ospedaliera, ma si estende anche nei mesi e negli anni successivi. L’attenzione è, infatti, concentrata nella fase acuta, dove si ottengono indubbi successi, ma talora trascura i problemi aperti inerenti la fase post acuta e cronica.
La precisa conoscenza dei rischi residui, per una corretta impostazione della prevenzione secondaria, e per un monitoraggio successivo della aderenza terapeutica, è spesso sottovalutata.
In infarti miocardici con sopraslivellamento del ST in cinque o più derivazioni, nonostante la strategia di riperfusione coronarica e i nuovi trattamenti farmacologici, rimane una elevata morbilità e mortalità sia a breve sia a medio termine.
Inoltre alla dimissione precoce può esserci una carenza di comunicazione e alcuni pazienti (giovani, anziani, uomini e donne, di tutte le categorie) possono uscire dall’ospedale senza avere compreso fino in fondo che malattia hanno avuto e/o la complessa terapia prescritta, (antitrombinici, beta-bloccanti, ace-inibitori, diuretici, statine) e l’eventuale programma riabilitativo, per la prevenzione delle recidive di sindrome coronarica acuta.
CONCLUSIONI
Questi dati ci portano a una riflessione e a considerare l’importanza del follow-up post procedura di angioplastica coronarica nella sindrome ischemica acuta per una verifica quantitativa dell’entità della malattia e del grado di compromissione funzionale.
La fase post-dimissione non è meno rischiosa di quella ospedaliera e le terapie consigliate debbono essere eseguite con attenzione e costanza (tenendo presente che ogni decorso post sindrome coronarica acuta ha una sua storia, una sua caratteristica).
Pertanto scaturisce la necessità di un ambulatorio organizzato per l’aderenza, l’ottimizzazione e la appropriatezza terapeutica, con l’impostazione di significative modificazioni dello stile di vita e dei fattori di rischio conosciuti, e con una programmazione personalizzata, per le varie categorie dei pazienti, alla prevenzione secondaria.
In conclusione è speranza che ciò detto possa essere apprezzato da medici e pazienti a prendere in considerazione questa opzione di assistenza tendente al miglioramento degli esiti clinici.
L’Induratio Penis Plastica (I.P.P.) o malattia di La Peyronie, venne descritta per la prima volta nel lontano 1743 dal chirurgo della corte di Versailles, Francoise de La Peyronie, osservando questa patologia su Luigi XIV, il Re Sole. Nonostante l’illustre esordio, tale affezione fu in seguito “dimenticata”.
L’I.P.P. è una patologia acquisita di origine ancora controversa, caratterizzata dalla comparsa di una o più placche inizialmente fibrose al livello della tunica albuginea dei corpi cavernosi e del circostante tessuto erettile con conseguente possibile incurvamento del pene in erezione.
I dati epidemiologici in letteratura sono piuttosto scarsi. Alcuni autori riferiscono una incidenza dal 0.39 al 0.70%. Altri hanno osservato, in corso di autopsie per altre cause, un’incidenza del 23% (1). Questa può aumentare in alcune condizioni patologiche quali diabete ed ipertensione. In circa il 17% dei casi si associa al Dupuytren e nel 2% ad otosclerosi.
Le cause di questa patologia non sono ancora note. Sono stati considerati vari fattori eziopatogenetici (quali infezioni, reazioni autoimmuni, ecc.) ma la causa più accreditata sembra essere legata a traumi o microtraumi dell’albuginea (talvolta in seguito all’attività sessuale) che attiverebbero un processo infiammatorio nel tentativo di riparare la lesione. Le cellule deputate a questa riparazione, i fibroblasti, sono responsabili della formazione del tessuto fibroso che, a causa di alterati meccanismi di autoregolazione, viene prodotto in eccesso (fase attiva). Questo processo tende ad evolvere in alcuni casi sino alla calcificazione della lesione (fase stabilizzata).
Clinicamente è caratterizzata da:
fase attiva acuta
• erezioni dolorose;
• eventuale deformità del pene in erezione;
• possibile disfunzione erettile ingravescente;
fase stabilizzata
• assenza di dolore del pene in erezione;
• da una curvatura e funzione erettile immodificate da circa 6 mesi.
Nel 51,7 % dei casi si manifesta inadeguatezza sessuale, verosimilmente legata all’incurvamento dell’asta e al conseguente impatto psicologico negativo.
Raramente il deficit erettile (D.E.) è causato direttamente dalla placca fibrotica; questo accade nei casi di compressione e/o occlusione di strutture arteriose o quando l’estensione del processo interessa le strutture trabecolari. Nella maggioranza dei casi la disfunzione erettile è legata all’incurvamento dell’asta (quando maggiore di 30-35°) e alle alterazioni emodinamiche di tipo venoso (4).
Da considerare le forme di D.E. preesistenti alla malattia.
La diagnosi dell’I.P.P., nella maggioranza dei casi, non è complessa. Un’attenta anamnesi e un corretto esame obiettivo possono già indirizzare verso questa patologia. Una documentazione fotografica, in più proiezioni, può quantificare oggettivamente il recurvatum. Nei casi dubbi, o per una eventuale stadiazione della malattia, o laddove esista un concomitante D.E., o nei soggetti destinati ad intervento chirurgico, è necessario effettuare indagini strumentali più approfondite. Nei pazienti giovani, che riferiscono oltre all’incurvamento anche un D.E., trova la sua indicazione la monitorizzazione delle erezioni notturne mediante Rigiscan test, per dimostrare l’eventuale presenza di disfunzione erettile indotta dalla malattia e quindi differenziare le forme organiche da quelle verosimilmente psicologiche.
L’esame più specifico per la diagnosi dell’I.P.P. è l’ecocolorDoppler penieno dinamico, in grado di fornirci uno studio anatomico e una valutazione emodinamica. Utile quindi per definire meglio le dimensioni e la costituzione della placca, e poter valutare i flussi vascolari di induzione e mantenimento dell’erezione. In casi più selezionati può essere indicata una risonanza magnetica nucleare (RMN) dinamica.
L’approccio terapeutico, proprio per le caratteristiche della patologia, non è codificato. Negli stati precoci (fase attiva- infiammatoria) è indicata una terapia medica. Numerosi sono i farmaci utilizzati per via sistemica, ma con risultati controversi e ancora oggetto di discussione. Quelli che sembrano avere i risultati migliori sono gli integratori a base di vitamina E.
Spesso si associa anche una terapia di tipo fisico, laser terapia e ionoforesi, utilizzando vari cocktail farmacologici (calcio antagonisti, fibrinolitici, cortisonici, anti-infiammatori), con lo scopo di veicolare questi medicamenti all’interno del pene, per ridurre la sintomatologia dolorosa e cercare di limitare l’eventuale progressione della malattia. Anche le iniezioni intra e periplacca con calcio antagonisti possono dare il loro contributo. Alcuni autori, in pazienti selezionati, riportano risultati lusinghieri con l’utilizzo dell’ESWT (Extracorporeal Shock Wave Therapy).
Nei pazienti non responder alle terapie medico/fisiche nei quali il coito sia difficoltoso per la eccessiva curvatura del pene, si può ricorrere a una terapia chirurgica di tipo conservativo, che corregge la deformità del pene senza intervenire sulla funzione erettile. Nei soggetti in cui si associa anche una disfunzione erettile severa, non risolvibile con altre terapie, è indicata una terapia chirurgica non conservativa di tipo protesico.
LA VISITA DI IDONEITÀ NELLA MEDICINA DELLO SPORT: INDICAZIONI E MODALITÀ D’USO
Un grande successo per la Medicina dello Sport italiana: l’Europa adotta le linee guida italiane.
Gli specialisti in Medicina dello Sport di tutta Europa prescriveranno l’attività fisica ai propri pazienti sulla base delle linee guida italiane. L’annuncio è stato dato nel corso del XXXII Congresso mondiale di Medicina dello Sport di Roma.
La Federazione europea sta implementando il proprio regolamento sulla prescrizione dell’esercizio fisico prendendo come modello il sistema italiano: in pratica, i medici dello sport di tutta Europa prescriveranno l’attività fisica ai propri pazienti sulla base delle linee guida italiane.Le linee guida italiane sono state presentate agli specialisti di tutto il mondo, ricordando che queste sono divise in 8 aree: classificazione dello sport, benefici e rischi dell’attività fisica, risposte fisiologiche all’esercizio, valutazione funzionale del rischio, prescrizione individualizzata dell’esercizio, nutrizione, invecchiare in salute, psicologia dell’attività fisica e dello sport.
Le linee guida messe a punto dai medici italiani, inoltre, prevedono di tenere conto oltre che dei parametri clinici usuali come altezza, peso o pressione, anche del concetto di “efficienza fisica”, calcolabile tramite un semplice esame e necessaria a stabilire la giusta quantità di esercizio da fare. La corretta dose di esercizio che deve essere prescritta dallo specialista “giusto”: lo specialista in Medicina dello Sport. Sarebbe, inoltre, auspicabile estendere il modello della medicina sportiva a tutta la popolazione. In questo modo sarebbe possibile svolgere una reale prevenzione delle malattie, essendo ormai la medicina dello sport l’unica forma di prevenzione rimasta in Italia, essendo scomparse le visite scolastiche e le visite di leva militare. Un sistema del genere permetterebbe, evidenziando precocemente le patologie, un notevole risparmio ai sistemi sanitari di molti Paesi.
Vediamo quali sono le norme da seguire per effettuare una corretta valutazione dell’idoneità allo sport.
Molti sono coloro che praticano attività sportiva agonistica in Italia, ma ben maggiore è il numero di praticanti amatoriali e l’impegno al quale l’organismo è sottoposto durante la pratica dello sport è tale che necessità di un perfetto stato di buona salute ed efficienza fisica.
Per verificare la propria efficienza fisica ed evitare rischi di patologie più o meno gravi, è opportuno sottoporsi, prima di intraprendere l’attività fisica e poi periodicamente, ad un controllo medico con il quale si possono evidenziare alterazioni favorenti l’insorgenza di patologie invalidanti.
Fra l’altro tale controllo medico, in Italia, è obbligatorio per tutti coloro che praticano attività sportiva agonistica e non agonistica organizzata [con società sportive, enti di promozione sportiva (UISP, ACLI…), in palestre ecc.]: la differenza tra le due tipologie di visita consiste nel fatto che la visita per l’agonistica comprende accertamenti strumentali (elettrocardiogramma a riposo e dopo sforzo, spirografia, esame urine…) e può essere effettuata esclusivamente dallo Specialista in Medicina dello Sport, mentre quella per la non agonistica (il certificato di “stato di buona salute” per intenderci) prevede solo la visita clinica (ma sarebbe opportuno effettuare almeno un elettrocardiogramma a riposo) e può essere eseguita anche dal proprio medico di base o pediatra di base.
Questa visita è molto importante nel giovane, perché permette di evidenziare eventuali patologie a rischio, ma soprattutto perché permette di intervenire su problematiche strutturali importanti per un corretto sviluppo ed accrescimento: eccesso di peso, scoliosi o atteggiamenti scoliotici, alterazioni dell’appoggio del piede (piede piatto, cavo) e del ginocchio (ginocchio valgo, varo).
Queste alterazioni se trascurate, possono causare in età adulta seri problemi patologici: obesità, cardiopatie e patologie metaboliche, artrosi ecc. Un intervento precoce può invece quanto meno migliorare la situazione.
Ugualmente importante è tale controllo nell’adulto che quasi sempre, preso dalla “smania sportiva”, dopo anni di sedentarietà decide di iniziare l’attività fisica e ovviamente non inizia a praticare con calma e tranquillità un po’ di corsa, ciclismo, nuoto a bassa intensità, ginnastica a corpo libero (attività estremamente salutari), ma va in palestra a fare Body building, Step, Aerobica, Spinning…: tutte attività estremamente intense e a rischio.
Un controllo dell’efficienza cardiaca, respiratoria, muscolo-tendinea e articolare è obbligatorio per prevenire accidenti talvolta molto seri.
Un’avvertenza però: diffidare dalle visite fatte “in batteria”, in strutture non autorizzate (lo studio di medicina dello sport ha delle caratteristiche ben determinate), eseguite con superficialità e privilegiando più la velocità di esecuzione che l’accuratezza; la Medicina dello Sport è una medicina preventiva e non una formalità!
Vediamo per prima cosa chi può effettuare tale visita specialistica e quali sono le modalità di esecuzione e gli accertamenti clinici e strumentali obbligatori.
A tal proposito dobbiamo distinguere la visita per l’idoneità allo sport agonistico da quella per lo sport non agonistico.
Visita per l’Idoneità alla pratica di Sport agonistico
Può essere effettuata solo dagli specialisti in Medicina dello Sport operanti in strutture autorizzate (in alcune Regioni, il Lazio ad esempio, esistono albi regionali dove sono iscritti gli specialisti e le relative strutture autorizzate).
Lo specialista deve effettuare una visita completa, comprendente la raccolta dell’anamnesi (la storia clinica, anche familiare) dell’atleta e l’esame dei grandi apparati (respiratorio, cardiaco, muscolo-scheletrico…).
Gli esami clinici e strumentali da effettuare sono i seguenti:
1. esame spirografico, con determinazione della capacità polmonare statica e dinamica e della massima ventilazione volontaria;
2. elettrocardiogramma a riposo;
3. elettrocardiogramma dopo esecuzione di Step Test [lo Step Test consiste nel salire e scendere su un gradino di altezza variabile (30 cm per i bambini, 40 cm per le donne, 50 cm per gli uomini) al ritmo di 120 movimenti al minuto, per un tempo di 3 minuti]; sulla base di questo test deve essere calcolato l’I.R.I. (indice rapido di idoneità), che fornisce informazioni sulla capacità di recupero dell’atleta;
4. esame completo delle urine (che deve essere eseguito obbligatoriamente da un laboratorio di analisi).
Per alcuni sport sono previsti accertamenti accessori [ad esempio per lo sport subacqueo è obbligatoria la visita dello specialista otorinolaringoiatra; per lo sci alpino (discesa libera) l’elettroencefalogramma, la visita neurologica ecc.].
Di ogni atleta il medico deve conservare una scheda medica, con gli esami effettuati, per un periodo di 5 anni dalla data della visita. La visita ha, solitamente, validità di 12 mesi (per alcuni sport di minor impegno, come ad esempio il Tiro con l’Arco, la validità è di 24 mesi).
Per accedere alla visita specialistica l’atleta deve consegnare allo specialista una Lettera di Richiesta della società di appartenenza (MODELLO 1), nominativa, nella quale devono comparire tutti i dati identificativi della società sportiva stessa (nome, indirizzo, codici di affiliazione ecc.).
Sport Non Agonistico
In questo caso la certificazione può essere effettuata (dopo una visita accurata, ma senza obbligo di accertamenti clinici e strumentali) anche dal PROPRIO MEDICO DI BASE O DAL PROPRIO PEDIATRA DI BASE, oltre che, ovviamente, dallo Specialista in Medicina dello Sport.
In caso di atleta minorenne, è obbligatoria sempre la presenza di un genitore che deve tra l’altro sottoscrivere una dichiarazione di consenso informato (MODELLO 2).
La visita medico sportiva non può essere effettuata al di fuori delle strutture autorizzate e quindi non può esistere uno Studio di Medicina dello Sport in una struttura sportiva (palestra, piscina, ecc.) se non rispetta le norme di legge relative (DPR 22.7.1996, art. 22, comma 4: lo studio di medicina dello sport situato in una struttura sportiva, deve avere ingresso indipendente e deve essere completamente eliminata ogni comunicazione tra le due strutture…).
Il costo della visita può variare nelle diverse regioni e nel Lazio, ad esempio, corrisponde a € 26 per gli atleti fino a 18 anni di età e a € 37 per i maggiorenni; tali importi sono fissi nelle strutture pubbliche (ASL ecc.) e sono invece da considerare come tariffa minima applicabile in quelle private (non ci sono comunque Regioni che applicano un costo minimo inferiore a quello riportato).
Al termine della visita lo specialista rilascia una certificazione che può essere di:
• IDONEITÀ, in caso di assenza di controindicazioni alla pratica sportiva specifica.
• NON IDONEITÀ, in caso di presenza di controindicazioni assolute o temporanee alla pratica sportiva specifica (la non idoneità deve essere comunicata dallo specialista alla ASL di appartenenza dello studio, alla Regione, alla federazione sportiva e alla società dell’atleta, oltre, ovviamente, all’atleta stesso).
• SOSPENSIONE, se sono ritenuti necessari ulteriori accertamenti strumentali per la formulazione del giudizio (anche in questo caso, trascorsi 60 giorni dalla richiesta di accertamenti e in caso di omessa consegna degli stessi, la sospensione deve essere comunicata alla ASL di appartenenza dello studio, alla Regione, alla federazione sportiva e alla società dell’atleta).
In caso di giudizio di NON IDONEITÀ, l’atleta entro 30 giorni può fare ricorso alla commissione regionale all’uopo istituita.
Lo specialista, a completamento dell’iter esecutivo e burocratico, deve inviare alla ASL di appartenenza dello studio, ogni 6 mesi, l’elenco delle visite effettuate.
A questo punto è opportuno ricordare che alcune alterazioni riscontrabili soprattutto in età giovanile (atteggiamenti scoliotici o scoliosi, patologie del piede e/o del ginocchio, eccessi ponderali di grado diverso e cattiva igiene alimentare…), se non adeguatamente curate, sono alla base di innumerevoli patologie dell’età adulta (artrosi, obesità, diabete, ipertensione, cardiopatie…), causa non solo di diminuzione dello stato di salute dell’individuo, ma anche di maggiori costi a carico della comunità, sia come interventi del sistema sanitario sia come giorni di lavoro persi.
Non sottovalutiamo quindi la visita dello specialista in medicina dello sport e pretendiamo che essa venga effettuata nei tempi e con le modalità previste dalla legge.
SINDROME FETO-ALCOLICA
È dovuta ad abuso di alcool in gravidanza. Nel 9% dei casi concomitano anomalie cromosomiche. I sintomi comprendono un fenotipo specifico della testa e del collo, disturbi neuropsichici, alterazioni scheletriche. La diagnosi è spesso tardiva: quella precoce sarebbe fondamentale per accedere a programmi socio-educativi personalizzati. Da questo punto di vista il genetista clinico sarebbe prezioso, specie in due circostanze: a) se l’anamnesi familiare e gravidica non è sicura, come nel caso di bambini adottati; b) se il fenotipo può confondersi con altre affezioni genetiche. Se poi concomita il fumo si aggiungono altre due complicanze: 1) microsomia neonatale per arteriolospasmo della placenta dovuto a nicotina; 2) nella fumatrice il vino, che fa aumentare gli estrogeni, accentua il rischio di cancro della mammella.
VINO E SATURNISMO NELL’ANTICA ROMA
I Romani erano molto affezionati a questa bevanda e inoltre venivano stimolati dalla necessità di produrla in abbondanza dovendo esportarla nelle numerose e vaste aree geografiche del loro impero. Il problema della sua maturazione (il mosto che “bolle”) era spesso risolto in via spontanea. La sua distribuzione era lenta: tra lo stoccaggio e il trasporto su strade e mari, che non potevano solcare per parecchio tempo a causa delle frequenti tempeste, passavano non di rado mesi e anni prima che l’anfora venisse aperta e il vino versato a tavola. La spremitura degli acini senza separarli dai raspi rendeva un po’ amaro il gusto della bevanda. Si faceva pertanto soggiornare il vino in grossi contenutori di piombo, che con il tempo sviluppava una patina biancastra e dolce. Il saturnismo, in quei tempi ignorato, era inevitabile.
ROTTURA DI CUORE
La rottura di cuore da infarto del miocardio è abbastanza rara: 2-4% dei casi. In uno studio su 1250 pazienti si è visto che solo 9 di essi (0,72%) hanno avuto la rottura della parete libera dopo 2 settimane dall’evento necrotico. La rottura avviene solo in caso di infarto transmurale, cioè quando la necrosi interessa a tutto spessore la parete cardiaca. Solo il 10% dei colpiti da infarto decede per la rottura cardiaca. La maggioranza è costituita da donne tra i i 65 anni e i 70. In più della metà dei casi concomita ipertensione arteriosa o almeno un episodio di angina pectoris durato fino a 6 ore.
VITAMINA D NELL’IPERTENSIONE
In un recente meeting di Londra della Società Europea dell’Ipertensione uno studio danese ha riferito sull’efficacia del calciferolo nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Su 112 esaminandi ipertesi si è visto che in 92 vi era carenza di questa vitamina. Il calciferolo, più che una vera cura, è un utile coadiuvante nella malattia ipertensiva, specialmente nei mesi invernali, quando è molto scarsa l’irradiazione della cute con i raggi solari, che stimolano la trasformazione della provitamina D della cute, inattiva, in vitamina D attiva.
TABAGISMO: PREVENZIONE E CURA
Una recente proposta del ministro Balduzzi prevede:
a) divieto di vendere sigarette elevato da 16 a 18 anni, con multe fino a 1.000 euro, e a 2.000 nelle recidive;
b) sospensione per tre mesi della licenza per l’esercizio dell’attività;
c) distributori automatici di sigarette muniti di sistema automatico per rilevare l’età dell’acquirente.
Per proteggere i giovani occorre sensibilizzare gli adulti, i genitori, gli insegnanti, i medici, le forze dell’ordine. Spirometria per il fumatore, anche asintomatico, in casi selezionati.
Obesità e aspettativa di vita.
La durata media di vita attualmente, come è noto, è di 78 anni per l’uomo e di 82 anni per la donna. Grazie ai continui progressi della Medicina essa è destinata ad aumentare andando poi incontro, per motivi biologici, a un progressivo rallentamento per assestarsi definitivamente (è augurabile?) intorno ai cento anni. Ma in questo trend interviene negativamente l’obesità, per due motivi fondamentali:
a) in tutto il mondo industrializzato al primo posto della mortalità figurano le malattie cardiovascolari;
b) l’obesità notoriamente aumenta il rischio per le affezioni circolatorie.
Pertanto in base a queste due considerazioni, se l’obesità non viene prontamente corretta – soprattutto mangiando di meno e muovendosi di più – gli epidemiologi prevedono che intorno all’anno 2050 si verificherà uno stop nell’aumento dell’aspettativa di vita.
FARMACI POTENZIALMENTE DANNOSI: INFORMARSI SEMPRE
Sul numero 975 del novembre 2012 nel pregevole settimanale Internazionale viene riportato un articolo di grande interesse pubblicato sul giornale The Guardian, scritto dal medico britannico Ben Goldacre, autore del libro “Bad Pharma”. È un articolo che tutti i medici dovrebbero leggere.
Quando prescriviamo un farmaco, ammesso per definizione di aver formulato la diagnosi corretta, sappiamo esattamente quale effetto ci sarà sui malati ai quali viene somministrato? Ben Goldacre descrive la circostanza, assai disdicevole, per cui la disponibilità di dati su effetti negativi o collaterali non viene spesso alla luce quando viene fornita istituzionalmente la documentazione sui prodotti in commercio. L’autore prende in esame diverse circostanze tra quelle note e meno note nella comunità scientifica ed evidenzia la grande capacità di manipolazione che è possibile effettuare nel formulare i risultati e nella loro comparazione. Precisa Goldacre: “dato che i ricercatori sono liberi di nascondere i risultati che vogliono, i pazienti corrono grossi rischi. Spesso i medici non hanno idea dei veri effetti delle cure che prescrivono” (Internazionale 2012; 975: 42) e successivamente ribadisce: “…le sue (“della scienza”, n.d.r.) scoperte sono affidabili solo quando tutti rendono pubbliche le loro ricerche, spiegano come fanno a sapere che qualcosa è efficace e sicuro, condividono metodi e risultati e consentono agli altri di decidere se sono d’accordo sul modo in cui quei dati sono stati elaborati e analizzati” (Internazionale 2012; 975: 44).
Il problema della sperimentazione dei farmaci è ad alto rischio. Le industrie investono milioni di dollari per definire un prodotto, la sperimentazione richiede tempo e spesso la congruità dei risultati necessita di un approfondimento costante. D’altro canto c’è una grande “richiesta di salute”. Le ricerche di base aumentano vertiginosamente la nostra conoscenza sui processi patogenetici delle diverse forme morbose, ma il tempo intercorrente tra l’acquisizione del dato scientifico di base e la ricaduta clinica (…from bench to bedside) può essere veramente lungo e ben si comprende come esista un’oggettiva pressione sui ricercatori (accademici e dell’industria) per giungere a una soluzione. D’altro canto la base genetica fornisce una specifica “singolarità” all’individuo, caratterizzata dall’ulteriore unicità biologica che deriva dall’associazione con il contesto ambientale, lo stile di vita, attività di lavoro.
È stato detto che esistono i malati ma non le malattie. Probabilmente questa affermazione era correlata, quando venne enunciata in passato, ad una visione un po’ “paternalistica” della medicina, ma contiene una verità incontrovertibile. Ciascuno di noi è in qualche modo un esperimento della Natura e non può la sola statistica uniformare i contenuti di una sperimentazione rendendola, sic et simpliciter, applicabile ad ogni soggetto. L’evoluzione biotecnologica della medicina ha inoltre amplificato in modo esponenziale i costi della sanità. Il bisogno (reale o indotto) di salute si è accresciuto unitamente alle “nuove” classi di malattie. Le semplici logiche di mercato spingono inevitabilmente sulla moltiplicazione dei consumi (anche in tempo di crisi economica) ed esiste un’oggettiva medicalizzazione della società.
L’articolo di Goldacre induce ad approfondimenti ulteriori dei quali oggi si ha un’estesa consapevolezza. Per esempio l’efficacia dei farmaci su etnie diverse, la somministrazione in età pediatrica (problemi di dosaggio e qualità dell’interazione biologica), la somministrazione di farmaci nel corso della gravidanza (problemi di efficacia sulla patologia che deve essere curata e danno potenziale al feto). Ma non basta: a complicare le cose c’è la prescrizione off label, cioè la somministrazione di una molecola per una malattia o stato patologico diverso da quanto indicato nel foglio illustrativo. In realtà il sistema off label è abbastanza ben controllato se il sanitario che lo propone segue la prassi corretta, ma spesso si tratta di situazioni limite e quindi, almeno in prima approssimazione, di più facile contenimento. A questa dimensione del rischio sperimentale “sporco” si affianca il problema di nuovi farmaci realmente innovativi, anche veri salvavita. In questo caso può accadere, nel nostro Paese, ma non solo, che esista un ritardo sostanziale tra la disponibilità del prodotto e la sua commercializzazione. Il tempo medio che intercorre tra l’approvazione europea e l’accesso effettivo a livello nazionale è di circa un anno in Italia, mentre meno di 6 mesi in Austria.
Ma non basta. Da qualche tempo si impone il vero, nuovo concetto di Precision Medicine. In un articolo dell’inizio 2012 (Preparing for Precision Medicine di Reza Mirnezami,, Jeremy Nicholson, e Ara Darzi) su N Engl J Med 2012; 366:489-491 viene sottolineato che il futuro delle nuove terapie si baserà sul background genetico di un malato e sulle caratteristiche molecolari delle sue manifestazioni cliniche (l’esempio può essere quello di una neoplasia maligna che ha caratteristiche biologiche sensibili a trattamento con uno specifico antineoplastico solo per una percentuale ridotta di casi, mentre per il più gran numero di casi la stessa neoformazione non è sensibile al trattamento considerato).
Attualmente l’unica soluzione possibile per acquisire in tempo reale i dati è la rete, ma non una rete “casuale”, bensì un approccio di area dedicata e la ricerca on line di biblioteche qualificate.
Il senso dell’equilibrio, forse il nostro vero sesto senso, è la somma di più sistemi recettoriali sensitivi periferici con stazioni di controllo centrali situate nel cervelletto e in alcune aree della corteccia cerebrale. Le informazioni provenienti dall’orecchio interno (specificatamente dal labirinto posteriore) raggiungono il sistema nervoso centrale, dove arrivano anche le immagini provenienti dai recettori retinici e altri stimoli sensoriali forniti dai recettori cutanei e muscolo-tendineo-articolari: il cervelletto integra tutti questi diversi segnali sensitivi, elaborandoli e portando a sua volta informazioni ai nostri muscoli al fine di ottenere una risposta globale di tutto il corpo per consentirgli di mantenere costantemente l’equilibrio rispetto allo spazio circostante.
Esiste una risposta costante di questo sistema alla forza di gravità e risposte che variano con il variare delle accelerazioni lineari ed angolari. Inoltre la risposta del sistema dell’equilibrio a partenza dal cervelletto può effettuarsi anche direttamente verso le strutture anatomiche periferiche muscolo-tendinee-articolari, senza un obbligato passaggio verso le aree della corteccia che renderebbero cosciente e volontario l’atto del movimento per evitare una perdita di equilibrio: è il movimento istintivo-immediato che eseguiamo, ad esempio, per non cadere di fronte a una situazione non prevedibile che ci si presenta all’improvviso! Tutte le malattie che direttamente o indirettamente causano danni ai nostri sensori periferici o al sistema nervoso centrale possono determinare o concorrere a creare un disequilibrio o sindromi vertiginose.
Da diversi anni ormai abbiamo più volte sentito pronunciare da amici o parenti frasi che descrivono un tipo particolare di vertigine determinata dal distacco e dalla successiva mal posizione di microscopici “sassolini” fatti di carbonato di calcio (di dimensioni molto piccole, dai 3 ai 30 µ), fondamentali costituenti dell’apparato vestibolare deputato al controllo dell’equilibrio. Tale quadro clinico è storicamente conosciuto come vertigine parossistica posizionale benigna (VPPB o VPP) o come canalolitiasi, cupulolitiasi, labirintolitiasi. La VPPB è la sindrome vertiginosa periferica di maggior riscontro nella pratica ambulatoriale.Essa sembra colpire in prevalenza il sesso femminile (rapporti compresi tra 1,6:1 e 2:1) e la sua età di esordio è piuttosto variabile, anche se la maggior frequenza è stata riscontrata tra i 50 ed i 60 anni.
Per molto tempo la sintomatologia prodotta da tale malattia era stata erroneamente attribuita ad altre patologie ed in particolare a quelle del tratto cervicale della colonna vertebrale: una vera e propria leggenda metropolitana!
Descritta per la prima volta nel 1921 dal medico austriaco (premio Nobel nel 1914) Robert Barany, fu poi meglio indagata e inquadrata dall’inglese C.S. Hallpike negli anni ’50. Solo però diverse decine di anni dopo (negli anni ’80), il quadro morboso incominciò a far sentire il suo peso statistico-epidemiologico. Grazie al contributo di vari autori la VPPB è stata successivamente sempre meglio codificata nei suoi aspetti sintomatologici-clinici e soprattutto nella sua risoluzione terapeutica. Negli ultimi anni il numero di casi sembra tendere all’aumento: verosimilmente questo inatteso incremento risiede nella maggiore frequenza e facilità di individuazione della malattia e nella sensibilizzazione crescente da parte del medico di medicina generale e di altri specialisti coinvolti (ortopedico, fisiatra, odontoiatra, angiologo, cardiologo, neurologo, medico sportivo, ecc.), nonché nel passa-parola fra pazienti che soffrono o hanno sofferto di questo disturbo.
Nell’orecchio interno, oltre a strutture deputate alla ricezione dei suoni e collocate nel cosiddetto labirinto anteriore, vi sono organi e sensori facenti parte del labirinto posteriore, che si occupano di controllare il nostro equilibrio e che sono in grado di darci costantemente informazione della nostra posizione in rapporto all’ambiente che ci circonda e soprattutto in relazione alla forza di gravità.
Il labirinto posteriore è strutturato come un vero e proprio “labirinto”, con strutture tubulari ricurve e orientate ortogonalmente tra loro: i canali semicircolari, superiore, posteriore e laterale; a un’estremità di ognuno dei canali è posizionata una ampolla che contiene il recettore neurosensoriale dotato di ciglia sensibilissime, detto cupula. Contigui ai canali semicircolari con le loro rispettive ampolle, vi sono strutture globiformi, l’utricolo e il sacculo, anch’esse contenenti i recettori specifici, le macule. L’intero sistema è ripieno di un particolare liquido che al di sopra dei recettori maculari contenuti nell’utricolo e nel sacculo si condensa in una sorta di gel di proteine che ricopre e unisce le varie ciglia; su questa sostanza gelatinosa sono posizionati gli otoliti o otoconi.
La VPPB s’innesca per il distacco di questi ultimi dal gel sospeso sulla macula dell’utricolo. Accade dunque che questi “sassolini” vadano a collocarsi all’interno di uno o più canali semicircolari. L’anomala dislocazione dei cristalli otolitici dovuta ai movimenti della testa del soggetto, va a generare movimenti del liquido intracanalare; ciò determina lo spostamento della cupula che invia, attraverso le cellule neurosensoriali, un’informazione asimmetrica (rispetto all’orecchio normo-funzionante) al sistema nervoso centrale, scatenando la sintomatologia vertiginosa.
Le cause dell’insorgere della malattia sono spesso difficili o impossibili da individuare, talvolta si tratta di traumi cranici (esempio tipico il cosiddetto “colpo di frusta” da incidente stradale), di patologie infettive virali (anche una banale sindrome influenzale), deficit della circolazione come l’insufficienza vertebro-basilare o altri quadri patologici circolatori, compresa l’ipertensione o le cefalee emicraniche, cause di natura tossica. In un’alta percentuale di casi la vertigine di questo tipo può tuttavia insorgere in soggetti privi di alterazioni patologiche rilevanti e in stato di completo benessere.
La sintomatologia riferita è in genere tipica, tanto da facilitare l’indirizzo diagnostico. Molto spesso i pazienti affetti da VPPB lamentano l’insorgenza della vertigine stando sdraiati a letto, di notte o al mattino al risveglio o mentre compiono particolari movimenti con il capo inclinato, come durante esercizi ginnici o più semplicemente allacciandosi le scarpe o iperestendendo all’indietro il capo per prendere un oggetto posto in alto.
La vertigine viene spesso riferita come di tipo rotatorio (“tutto ruota attorno”), di durata relativamente breve, in genere meno di un minuto, che si attenua notevolmente mantenendo la testa immobile in una certa posizione. Si associano spesso fenomeni di carattere neurovegetativo quali la nausea, il pallore, il vomito, la sudorazione fredda, la tachicardia che spaventano ulteriormente il malato. Mai si associano invece sintomi uditivi o neurologici. Caratteristica è anche la riproducibilità delle vertigini con movimenti particolari assunti con il corpo e con la testa. L’anamnesi del paziente può indirizzare il medico di base o altri specialisti non otorinolaringoiatri verso il sospetto di una labirintopatia. Sarà poi compito dell’otoiatra accertare l’effettiva presenza di una patologia labirintica e in particolare della VPPB. Tale accertamento diagnostico presuppone un postulato fondamentale: il soggetto va visitato il più precocemente possibile (a letto del malato! bed-side vestibular examination), con la sintomatologia vertiginosa posizionale in atto! Quando il soggetto dovesse – nel corso di ore, giorni, settimane o mesi – guarire spontaneamente (tale possibilità è tutt’altro che rara), senza essere riusciti a fare una precisa diagnosi del disturbo, rimarrebbero dubbi importanti sulla causa della vertigine, tanto da indurlo a sottoporsi a numerosi accertamenti clinici quasi sempre inutili e con costi sociali non indifferenti.
L’accertamento diagnostico (e spesso la stessa terapia risolutiva) viene eseguito facendo compiere al malato particolari manovre di spostamento corpo-testa. Si effettua la manovra di Dix-Hallpike per evidenziare una tra le più frequenti VPPB, cioè quella che coinvolge il canale semicircolare posteriore.
Individuato il canale (o i canali) interessato dal deposito anomalo dei “sassolini”, si attuano direttamente particolari manovre atte alla fuoriuscita degli otoliti e alla liberazione del canale colpito, manovre cosiddette liberatorie. Una volta riportati fuori dai canali semicircolari, all’interno dell’utricolo, gli otoliti verranno degradati. Una delle manovre più usate in Europa è quella che porta il nome del kinesiterapeuta francese che la ideò negli anni ’80, Alain Semont.
La manovra possiede un’alta efficacia terapeutica. Altre manovre sono impiegate nella risoluzione dei problemi di vertigine posizionale dei canali semicircolari posteriori (m. di Epley, P.R.M. particle repositioning maneuver), dei canali laterali (m. coatta di Vannucchi, m. di Gufoni). Per i canali superiori (raramente implicati in questa patologia) non vi sono ancora manovre ben codificate a livello internazionale.
Durante l’esecuzione sia delle manovre diagnostiche sia di quelle terapeutiche (e liberatorie) il soggetto avrà sensazioni vertiginose più o meno intense, in genere di breve durata, accompagnate dal corteo di sintomi neurovegetativi tipici. Importante, durante l’esecuzione delle manovre, è raccomandare al paziente di mantenere gli occhi aperti affinché il medico ORL possa osservare – sia direttamente, che con particolari occhiali che impediscano la messa a fuoco o con altra strumentazione video – l’estrinsecarsi di un particolare movimento dei bulbi oculari detto nistagmo (movimento coniugato degli occhi, involontario, ritmico, composto da una fase rapida e una lenta di ritorno). Lo studio del nistagmo e la comparsa della sintomatologia vertiginosa consentiranno all’operatore di verificare la presenza della VPPB e l’andamento del tentativo di guarigione clinica.
La VPPB ha un’alta tendenza alle recidive (secondo alcuni autori anche fino all’80%), senza poterne prevedere i tempi d’intervallo, da un giorno a diversi anni di benessere. Le stesse manovre possono dare risultati brillanti di risoluzione già dopo la prima seduta oppure può essere necessario effettuarle nuovamente nei giorni successivi. Al paziente si raccomanderà di non esporsi a situazioni rischiose, come mettersi alla guida, salire su scale, eseguire lavori con il capo inclinato; verrà sconsigliato di sottoporsi a cure odontoiatriche, terapie fisiatriche, esercizi di ginnastica vari o pratica di attività sportive. Inoltre si dovrà dormire per i primi giorni assumendo posizioni particolari ed evitandone altre.
La diagnosi differenziale con altre labirintopatie, come la malattia di Ménière o la neurite vestibolare, può risultare relativamente semplice tenendo conto che, tuttavia, la stessa sindrome di Ménière può provocare il distacco degli otoliti ed il loro successivo mal posizionamento nei canali semicircolari.
Nel differenziare la VPPB da altre sindromi neurologiche e per escludere rare patologie tumorali, specie nei casi dubbi o difficili da risolvere con i vari tentativi “liberatori” effettuati in un ragionevole arco di tempo, lo specialista potrà richiedere altre indagini cliniche e radiologiche.
In conclusione resta notevole la certezza statistica che la maggioranza delle vertigini posizionali abbia un’evoluzione benigna senza alcuna grave patologia alla base di questa labirintopatia; risulta essere una malattia in grado di risolversi in maniera naturale e spontanea, che in ogni caso potrà essere diagnosticata e curata dallo specialista otorinolaringoiatra in modo semplice, con manovre eseguibili su un lettino in ambulatorio o anche a domicilio del paziente, soprattutto senza uso di farmaci.
È un’analisi semplice, di routine, e consente di avere molte informazioni sul nostro metabolismo. L’uricemia è un esame che consente di valutare la quantità di acido urico presente nel sangue. L’acido urico è il prodotto della degradazione delle purine esogene ed endogene (adenina, guanina). Quindi il suo significato metabolico è molto importante. Ma andiamo per ordine.
Le purine sono basi (adenina e guanina) legate a zuccheri (ribosio e deossiribosio) e gruppi fosfato: svolgono importanti funzioni legate alla replicazione del materiale genetico, trascrizione genica, sintesi proteica e metabolismo cellulare. Le purine in pratica entrano nel metabolismo energetico (ATP), sono importanti nella costruzione degli acidi nucleici (DNA e RNA) e svolgono alcune funzioni nella formazione dei segnali biochimici all’interno delle cellule. Lo schema che porta dalle purine all’acido urico è riassumibile in alcuni passaggi critici, di seguito riassunti: le purine sono sintetizzate in tutti i tessuti e vengono introdotte con alcuni alimenti: l’enzima xantina-ossidasi permette la produzione di acido urico. In sostanza l’acido urico è il prodotto del catabolismo finale purinico. Si trova nella forma ionizzata nota come urato monosodico.
Quando i liquidi del nostro organismo contenenti acido urico diventano soprasaturi, allora l’acido urico, secondo ben note leggi di chimica, comincia a precipitare e forma cristalli. Al medico, e al paziente, ovviamente interessano le condizioni di squilibrio dei valori uricemici. E storicamente la patologia di riferimento è stata la gotta. La gotta è una malattia metabolica dovuta a un disordine del metabolismo delle purine che porta alla deposizione di cristalli di urato monosodico a livello articolare, con sviluppo di una reazione infiammatoria (artrite gottosa), e nei tessuti extra-articolari con formazione di depositi denominati tofi. Probabilmente agli Egizi va il merito di aver descritto per primi l’attacco di gotta acuto, quello che riguarda la prima articolazione metatarso-falangea, ma sembra che fosse un monaco domenicano dell’età medioevale a introdurre il termine gotta (dal latino “gutta”, goccia).
Di particolare acume l’approccio di Ippocrate ai segni e ai sintomi della malattia: egli ipotizzò una relazione tra stile di vita e comparsa della malattia. In passato, ma anche un po’ ai nostri giorni, la gotta venne considerata la malattia del benessere, la malattia dei re e dei papi, di chi in sostanza si alimentava bene con abbondanza di cibo. Sebbene in parte ridimensionato, ma non troppo, il significato della dieta non è secondario nel predisporre o favorire l’iperuricemia. L’assunzione di carne, pesce, frutti di mare e di cibi ad alto contenuto di fruttosio, la birra e, più in generale, l’assunzione di alcolici possono aumentare i livelli di acido urico. Essendo nei paesi economicamente avanzati, sostanzialmente un po’ in tutto il mondo occidentale, l’alimentazione in abbondanza (anche se non per tutti), i valori medi dell’uricemia sono in pratica quasi raddoppiati nel corso del ventesimo secolo. Vari personaggi noti nella storia hanno sofferto di gotta: Lorenzo il Magnifico, Enrico VIII, Carlo V, Martin Lutero, Giovanni Calvino, Michelangelo, Leonardo, Newton, Darwin.
Gli aspetti essenziali di questa malattia sono così riassumibili:
• presenza di attacchi ricorrenti di artrite e formazione di depositi di cristalli di acido urico a livello articolare, periarticolare e viscerale;
• l’incremento dei valori dell’uricemia è il marker biochimico base e anche la condizione fondamentale della gotta, tuttavia l’iperuricemia non significa automaticamente scatenamento della malattia e può rimanere una condizione asintomatica;
• nel mondo occidentale (Europa e USA) la prevalenza dell’iperuricemia è del 4-18% e la prevalenza della gotta è dello 0.20%.
• è una tipica malattia del maschio adulto, e solo nel 5-6% dei casi interessa le femmine, (prevalentemente in età post-menopausa).
Nei soggetti sani il pool dell’acido urico è di circa 1.100-1.200 mg. I livelli sierici dell’acido urico sono minori nell’infanzia rispetto all’età adulta e hanno un incremento dopo la pubertà raggiungendo valori compresi tra 2,2 e 7,5 mg/dl nei maschi adulti e nella donna in post-menopausa e tra 2,1 e 6,6 nelle femmine in età pre-menopausale.
L’acido urico è filtrato tutto a livello glomerulare, riassorbito nel tubulo prossimale, secreto e riassorbito di nuovo parzialmente nella porzione distale del tubulo prossimale, nella porzione ascendente dell’ansa di Henle e nei dotti collettori (2/3 di acido urico sono escreti con le urine); batteri presenti nell’intestino con enzima uricasi degradano il restanto 30% di acido urico.
Le manifestazioni cliniche correlate all’acido urico si possono riassumere nei seguenti punti: iperuricemia asintomatica, artrite gottosa acuta, gotta intercritica, gotta cronica con formazione di tofi. Altrettanto importanti sono i quadri di artropatia uratica cronica, la nefropatia gottosa, la nefrolitiasi.
Secondo i dati più aggiornati, nel corso degli ultimi venti, trenta anni per la gotta si è osservato un sostanziale incremento di casi. Questo incremento riguarda la popolazione oltre i 65 anni di età (valori superiori al 40%). Ma se è vero che la gotta non è più la malattia dei benestanti o dei ricchi veri e propri, cosa ha determinato il suo incremento? La risposta, come in molte circostanze di varia patologia, riguarda il cambiamento degli stili di vita. Le circostanze più significative riguardano le modificazioni delle abitudini alimentari, la presenza ormai epidemica di popolazione con obesità (diabesità), l’invecchiamento della popolazione, impiego di diuretici e aspirina che (a dosi basse) riducono la eliminazione di acido urico nelle urine. Altrettanto importanti sono le malattie, come l’insufficienza renale, che rappresentano condizioni biologiche favorevoli all’accumulo di acido urico.
Sebbene sia ben noto nella clinica medica che l’iperuricemia si associa a obesità, diabete e malattie cardiovascolari, oltre che renali, è soprattutto nel corso degli ultimi anni che si è dimostrato come l’iperuricemia cronica (con depositio di cristalli di urato) sia associato all’andamento (anche prognostico) di cardiopatie, ictus, alterazioni delle facoltà cognitive e dell’insufficienza renale.
Un dato importante per richiedere il dosaggio dell’acido urico sta nell’osservazione che la clinica dell’iperuricemia non si limita alle manifestazioni tipicamente “gottose”, manifestazioni legate al deposito articolare (artriti) o al di fuori delle articolazioni (variante con tofi), ma si estende a un assetto metabolico complessivo. Questo è il motivo per cui ai nostri giorni è più opportuno riferirci a iperuricemia cronica con o senza deposito di urati. Infatti i livelli di acido urico vanno controllati con adeguata periodicità proprio nell’ambito delle patologie cardiovascolari e delle nefropatie. Un altro aspetto importante, proprio nella routine e nell’ambito delle iniziative di prevenzione, riguarda l’osservazione che elevati valori di acido urico correlino con la tendenza a sviluppare ipertensione arteriosa. Inoltre sembra che il soggetto con ipertensione e iperuricemia vada incontro, rispetto all’iperteso normouricemico, ad un maggiore danno d’organo.
Da ricordare. La concentrazione di acido urico nel sangue varia con sesso ed età. Nel periodo della pubertà, nel sesso maschile, i valori aumentano. Più tardivamente questo si osserva nel sesso femminile. Quando si valuta la concentrazione di acido urico, da considerare un insieme di parametri: peso corporeo, pressione arteriosa, assunzione di alcol. Quale deve essere il valore di riferimento per un approccio pratico: quando l’iperuricemia eccede il valore di 7,0 mg/dl. Indipendente dalle considerazioni sul rischio delle patologie correlate, per quanto riguarda la probabilità di sviluppare un’atrite gottosa o una forma di nefrolitiasi, essa è proporzionale ai valori di ipoeruricemia superiori al valore di cut-off di 7 mg/dl.
SU UNA RARA LOCALIZZAZIONE DI TUBERCOLOSI OSSEA
Nella sua indagine del 2012 la “Tubercolosis Surveillance and Monitoring in Europe”, organizzazione dell’OMS, segnala l’incidenza di 309.648 nuovi casi di tubercolosi (tbc) nel 2010 nella sola area europea, a fronte di un trend dell’infezione di 34 casi su 100.000 abitanti e una letalità di 6,7 casi su 100.000 abitanti.
I dati OMS e del nostro Ministero della Salute (1999-2005) indicano un trend stabile a bassa prevalenza nel nostro Paese. È segnalato però un notevole incremento, rispetto a cent’anni or sono, delle infezioni extrapolmonari, pleuriche nel 25% dei casi, genitourinarie nel 14%, osteoarticolari nel 5% e linfonodali nel 5% (1). È da tener presente un nuovo aspetto aggressivo dell’infezione tubercolare con la comparsa di casi “multifarmaco resistenti” (MDR). Particolare attenzione deve essere rivolta ai malati con HIV per i quali il rischio di tubercolosi è notevolmente più elevato (2); analogamente un rischio per il nostro paese è rappresentato dall’immigrazione regolare o clandestina, per l’esistenza di focolai endemici piuttosto rilevanti in Paesi africani a bassa o elevata incidenza di infezioni da HIV, in Paesi dell’Europa orientale, del Mediterraneo e del Sud Est asiatico.
Il problema della tbc può diventare ancora più serio in Italia in ragione della comparsa, oltre che di casi “multifarmaco resistenti” (MDR-TBC), anche di quelli totalmente resistenti alla terapia tradizionale (detti XDR-TBC, “Extensively Drug-resistant”). In relazione a quanto sopra segnalato si ritiene utile descrivere il caso di una donna di 56 anni, affetta da una rara artrosinovite tubercolare di una delle due articolazioni sterno-clavicolari; significativi nell’anamnesi due epsiodi pregressi di pleurite essudativa, rispettivamente all’età di 13 anni e di 16 anni e un intervento di plastica tubarica all’età di 37 anni.
La localizzazione tubercolare a carico dell’articolazione sterno-clavicolare di sinistra si manifestava con una tumefazione dolorosa (fig. 1) della sede articolare; un esame radiografico correlato da stratigrafia evidenziava la presenza di areole di osteolisi nel contesto del capo osseo clavicolare (fig. 2).
Nonostante la negatività per il bacillo di Koch all’ago aspirato, la malata manifestava una persistente febbricola e una intradermoreazione di Mantoux positiva (a 72 ore: ++++). Una biopsia nella sede articolare evidenziava la presenza di tessuto connettivo sede di necrosi e flogosi granulomatosa di tipo tubercolare, nonostante la negatività della colorazione per lo Ziehl Nilsen (fig. 3).
Un’idonea terapia farmacologica determinava la scomparsa di febbricola, la normalizzazione della sedimetria e la guarigione del focolaio osteomielitico. Il caso riferito comporta alcune considerazioni sostanziali:
a) Grocco e Poncet, rispettivamente nel 1892 e 1902, per primi hanno segnalato la possibilità di una tubercolosi a carico dell’apparato osteoarticolare, definendolo “reumatismo tubercolare” (3);
b) l’infezione tubercolare a carico delle articolazioni sterno-clavicolari non è frequente e non va confusa con le altre manifestazioni patologiche della “parete toracica anteriore” (4);
c) il caso in questione è espressione di una recidiva dell’infezione tubercolare raccolta in anamnesi;
d) un’adeguata terapia per la tubercolosi determinava una completa risoluzione del quadro clinico.
ANALISI DEL LIQUIDO SEMINALE: VALORI DI RIFERIMENTO
L’analisi del liquido seminale è un esame fondamentale per indagare la condizione del partner maschile nella coppia infertile; è quindi l’esame di base per valutare la fertilità maschile e rappresenta l’unico strumento per la determinazione dei protocolli terapeutici e per la valutazione dell’efficacia degli stessi.
Utilizzare tale esame come strumento di valutazione di una determinata situazione clinica preoccupa i medici in quanto le caratteristiche dello sperma sono suscettibili di variazioni non solo legate alla condizione del soggetto ma anche a variabili puramente laboratoristiche.
Tale analisi è una delle più controverse e nel corso degli ultimi venti anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) ha affidato a ricercatori e clinici il compito di individuare i criteri per la standardizzazione dell’esame e per l’interpretazione dei risultati.
Nel 2010 il WHO pubblica la V edizione del Manuale di laboratorio per l’esame del liquido seminale che contiene le linee guida per l’esecuzione dell’analisi e i parametri di riferimento per la valutazione dei risultati.
Il liquido seminale è molto diverso rispetto agli altri fluidi corporei; è costituito da una sospensione concentrata di spermatozoi che solo al momento dell’eiaculazione si mescola con le secrezioni delle ghiandole accessorie dell’apparato genitale. È dimostrato che la qualità del liquido seminale può variare secondo le diverse modalità di raccolta; l’eiaculato prodotto per masturbazione ha caratteristiche differenti rispetto a quello emesso durante un rapporto sessuale e può essere di qualità inferiore perché l’eccitazione sessuale non è uguale.
In condizioni di raccolta determinate, la qualità del liquido seminale dipenderà solo da fattori non modificabili quali la produzione a livello testicolare, la secrezione delle ghiandole accessorie, patologie recenti e i giorni di astinenza sessuale.
Una corretta esecuzione e interpretazione sarà quindi possibile solo se la raccolta del campione è completa in quanto la prima parte dell’eiaculato, quella di origine prostatica, è ricca di spermatozoi mentre la ultime frazioni sono di provenienza vescicolare (fig. 1).
Altri fattori che influenzano la qualità del liquido seminale sono determinati dall’attività delle ghiandole accessorie e dal periodo di astinenza sessuale; tali variabili determinano variazioni in differenti campioni seminali dello stesso soggetto ed è per questo che l’esecuzione di un unico esame non consente di definire i parametri seminali di un individuo ed è quindi utile esaminare due o tre campioni per una corretta interpretazione dei risultati.
I parametri che uno spermiogramma (fig. 2)
deve assolutamente prendere in considerazione sono il volume, il numero di spermatozoi nell’eiaculato e il numero di spermatozoi per ml, la percentuale di motilità degli spermatozoi distinta in progressiva e non progressiva, la percentuale delle forme normali (figg. 3 e 4);
senza tali parametri lo spermiogramma non può essere considerato attendibile. Numero, motilità e morfologia rappresentano i tre parametri fondamentali per la valutazione della potenziale fertilità dell’individuo.
In realtà è molto importante associare a questi ultimi altri parametri, in assenza dei quali lo spermiogramma non può essere utilizzato dal medico per completare il quadro clinico del soggetto: si tratta del pH, della viscosità e della fluidificazione ma anche della presenza di leucociti, di cellule germinali immature, di zone di spermioagglutinazione.
Quale di questi parametri sia più associato alla fertilità non è ancora noto: è quindi importante fornire un referto laboratoristico che contenga il maggior numero di informazioni sulla qualità del campione seminale analizzato.
Le valutazioni eseguite devono inoltre essere confrontabili con valori di riferimento che consentano di decidere in merito alla gestione del paziente e alle eventuali terapie da proporre.
Nel 2010 è stato pubblicato un lavoro scientifico condotto da un gruppo di studio internazionale e destinato a definire i valori di riferimento delle caratteristiche del seme umano. In questo studio sono stati inclusi campioni seminali di 4500 uomini fertili di 14 differenti stati nei quattro continenti e le cui partner hanno concepito entro 12 mesi dalla sospensione di metodi contraccettivi.
I risultati di questo studio sono stati utilizzati nel manuale del WHO per identificare i valori di riferimento (tab 1); sono espressi in percentili, che sulla base dei valori di riferimento, permettono di identificare la probabilità di ottenere la gravidanza.
Nell’interpretazione di tali dati va tenuto presente che le caratteristiche seminali sono estremamente variabili sia nello stesso soggetto sia in individui diversi; inoltre occorre considerare che la fertilità è un fattore di coppia, pertanto i valori di riferimento danno solo indicazioni sulla potenziale fertilità dell’uomo. Parametri seminali che si trovano all’interno dell’intervallo di confidenza del 95° percentile non garantiscono la fertilità e i soggetti con parametri che scendono sotto i limiti inferiori, non sono necessariamente infertili; ogni dato deve essere interpretato insieme alle informazioni cliniche.