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MEDICI SPECIALISTI

FUMO E APPARATO CARDIOVASCOLARE
di Alessandro Ciammaichella

I meccanismi patogenetici attraverso i quali il fumo danneggia l’apparato cardiovascolare comprendono essenzialmente azioni immediate, dovute alla nicotina, e azioni ritardate, dovute all’ossido di carbonio. Il danno immediato della nicotina consiste essenzialmente in:

  1. arteriospasmo, specialmente coronarico;
  2. tachicardia e aumento della pressione arteriosa, con conseguente maggior affaticamento cardiaco;
  3. diminuzione della pressione parziale di ossigeno nel sangue e della saturazione dell’emoglobina.

In particolare la nicotina aumenta i recettori nicotinici dei gangli simpatici e parasimpatici e incrementa altresì la produzione di catecolamine nella midollare surrenalica nonché la sensibilità per le catecolamine stesse dei chemiorecettori aortici, carotidei e del sistema nervoso centrale: il risultato complessivo è una marcata attivazione adrenergica. Strettamente connessi con questa sono gli aumenti della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della gittata cardiaca, dell’inotropismo cardiaco e dell’automatismo cellulare del cuore.

Ma i danni della nicotina investono anche il quadro lipemico e l’aggregazione piastrinica: diminuisce la prostaciclina (un importante antiaggregante fisiologico), diminuisce il colesterolo HDL (il colesterolo “buono” o “spazzino”), mentre aumentano il colesterolo LDL (aterogeno) e gli acidi grassi non esterificati (NEFA), nocivi per il cuore.

La conclusione fisiopatologica: iperaggregabilità piastrinica, formazione della placca ateromasica, ischemia miocardica.
Il danno ritardato dell’ossido di carbonio consiste essenzialmente in:

  1. lesione dell’endotelio, con perdita della sua funzione di barriera filtrante (disoria);
  2. diminuzione del colesterolo HDL e aumento di quello LDL;
  3. diminuzione delle prostacicline nei capillari polmonari;
  4. aumento del numero dei recettori delle piastrine per l’adrenalina e la serotonina, aggreganti;
  5. mobilitazione dei NEFA;
  6. proliferazione delle cellule muscolari lisce della tunica media nella loro migrazione verso l’intima.

L’effetto ipertensivo del fumo si arricchisce anche per recenti contributi relativi al monitoraggio pressorio.

In uno studio al riguardo che ha interessato 47 pazienti ipertesi fumatori (almeno 20 sigarette al giorno) paragonati a non fumatori, ho visto le seguenti conclusioni:

  • pressione arteriosa clinica: 156/103
    – sia in fumatori sia in non fumatori
  • pressione arteriosa ambulatoriale (con monitor)
    – 146/96 nei fumatori
    – 140/93 nei non fumatori sotto i 50 anni
    – 146/97 nei fumatori
    – 137/92 nei non fumatori
  • di notte:
    – nessuna differenza fra i due gruppi
  • catecolamine urinarie:
    – nessuna differenza fra i due gruppi.

Il fumo coinvolge anche il “sistema nitrergico”, incentrato sull’ossido nitrico, identificabile con EDRF (endothelium derived relaxing factor). Si tratta di un potente vasodilatatore endogeno, che corregge gli effetti vasocostrittivi di altri fattori, quali il trombossano e l’angiotensina II.

Dal 1964 si parla pertanto di un “tono vasodilatatore” dei vasi: si ritiene oggi che su di esso si sovrappongano le influenze vasocostrittrici. Pertanto ai ben noti sistemi colinergico e adrenergico si deve aggiungere il sistema nitrergico. L’ossido nitrico viene rilasciato dietro stimolazione di fibre nervose ubiquitarie, presenti nel cuore e nei vasi.

I corpi cavernosi del pene sono molto ricchi di nervi nitrergici: la loro vasodilatazione è molto NO-dipendente. Il fumo inibisce la produzione di NO.

Orbene, un’interpretazione moderna della ben nota azione deprimente del fumo sulla vis erettile vede proprio questa diminuita o assente produzione dell’ossido nitrico a livello dei corpi cavernosi.

Il fumo sposta l’equilibrio coagulativo del sangue (bilancia emostatica di Atrup) verso la trombosi con numerosi meccanismi: diminuzione dell’antitrombina III (anticoagulante fisiologico), incremento del fibrinogeno (indispensabile per la formazione dei filamenti di fibrina, che costituiscono l’impalcatura del trombo), incremento del numero dei globuli rossi (ematocrito aumentato) con conseguente difficoltà degli stessi ad attraversare i sottilissimi capillari, senza dimenticare che l’eritrocitosi è dovuta anche all’enfisema polmonare, e inoltre incremento del colesterolo LDL e calo di quello HDL. Sono tutti eventi che concorrono a rendere il sangue più coagulabile, donde maggior rischio di trombosi nei vari distretti arteriosi.

Poiché l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito – oltre all’ipercolesterolemia – sono ben conosciuti fattori di rischio cardiovascolare, ne deriva sul piano della prevenzione che se il fumatore è diabetico e/o iperteso deve impegnarsi al massimo nel cessare di fumare e nel curare al meglio queste affezioni.

Circa i rapporti con l’ipertensione arteriosa si deve citare anche la cotonina: si tratta di un prodotto di degradazione della nicotina a livello epatico, che viene poi eliminata attraverso la saliva e le urine, dove viene repertata anche nel fumatore passivo. è questa una ricerca interessante anche dal punto di vista medico legale nel caso di assicurazioni sulla vita di fumatori che negano di esserlo.

Il dato singolare è che la cotonina – a differenza della nicotina – specialmente a lungo termine svolge effetto ipotensivo poiché rilascia la muscolatura liscia vasale oltre a dilatare i vasi sanguigni in vitro e a ridurre la pressione arteriosa nell’animale anestetizzato.

Oltre che per effetto della cotonina, l’azione ipotensiva del fumo in tempi lunghi si può anche spiegare con la prolungata tachicardia, propria del tabagismo, e la conseguente disfunzione miocardica con contemporaneo affievolimento della contrattilità.

è questa la “miocardiopatia da fumo” che si caratterizza anche per aumento del collagene nelle coronarie (oltre che in altri distretti arteriosi), per ipocinesia diffusa del ventricolo sinistro, per discinesie ventricolari, per danneggiamento dei mitocondri, le centrali energetiche delle cellule.

In relazione all’uso del caffè, va ricordato che i fumatori metabolizzano più rapidamente la caffeina, la quale ha pertanto un’emivita più ridotta rispetto ai non fumatori: ciò può anche spiegare la frequente tendenza del fumatore a bere molti caffè e il minor desiderio del non fumatore a ingerire tale bevanda. S

e poi il fumatore cessa di fumare, la caffeina viene metabolizzata più lentamente, con secondario aumento della sua concentrazione ematica e possibili danni del miocardio. Pertanto al fumatore che smette di fumare si deve consigliare di ridurre il caffè.

Per quanto riguarda il cuore, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha incluso il tabagismo fra i numerosi fattori di rischio cardiovascolari.

Riguardo ai rapporti fra cardiopatia ischemica e tabagismo, questa – per numero assoluto di uomini e donne coinvolte – rappresenta un problema molto più grave del cancro polmonare.

Il tabagismo favorisce l’angina pectoris, come ben documentato dall’ECG Holter, l’infarto miocardico (letale e non), le sue recidive, specie se associato a ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, iperfibrinogenemia.
Anche la morte improvvisa viene favorita, sia per fibrillazione ventricolare dovuta ad aumento delle catecolamine (i beta-bloccanti sono in merito il farmaco elettivo), sia per infarto miocardico dovuto a trombosi acuta di un’arteria coronarica.

In ambito coronarico, il ben noto abbassamento del colesterolo HDL dovuto al fumo interessa in particolare la sua frazione HDL-2, che svolge la più specifica azione protettiva sulle coronarie.

Lo spasmo coronarico e la tachicardia da tabagismo riducono notevolmente la tolleranza allo sforzo. Nell’atleta la peculiare condizione cardiologica è caratterizzata da bradicardia (il “cuore bartaliano”), condizione di privilegio per essere “in forma” durante le gare.

L’allenatore di calcio Zeman, ripetutamente ripreso in televisione con l’immancabile sigaretta in bocca, non dà certo un buon esempio ai propri giocatori e, quel che è peggio, a quella numerosissima schiera di tifosi che, più o meno, lo ammirano e che – in gran parte giovani – sono i più inclini all’emulazione.

Il fibrinogeno, che si correla patogeneticamente con la cardiopatia ischemica, ha un tasso ematico significativamente aumentato nel fumatore: la cessazione del fumo tende a far diminuire questo valore.

La fibrinogenemia è più alta nelle classi sociali economicamente svantaggiate: gli stress psichici da basso grado di impiego o da lavoro non soddisfacente ne sono una probabile causa.

Nella donna fumatrice (in progressivo aumento numerico nelle ultime decadi, in tutto il mondo), specialmente sotto i 50 anni, il rischio di infarto miocardico è più elevato rispetto all’uomo, e ciò per ogni grado di stenosi coronarica: se ne deduce che meccanismi non legati alla placca aterosclerotica possono giocare, nella donna, un importante ruolo patogenetico.

Ma nella donna l’infarto presenta anche un’evoluzione meno favorevole.

Nel sesso femminile l’azione nociva del fumo sulle coronarie viene potenziata dagli ovarostatici. Questi costituiscono un importante fattore di rischio per la fumatrice, specialmente se concomitano altre condizioni: età superiore ai 35 anni, familiarità cardiovasculopatica, ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, iperlipidemia.

Che ne è del fumatore quando cessa di fumare? Con l’interruzione del fumo è certa la riduzione della morbosità e della mortalità per infarto.

È ancora un po’ “sub iudice” l’altro quesito, cioè se vi sia un vantaggio una volta che la coronaropatia si sia già instaurata. Al riguardo, uno dei più ampi e più documentati studi quali quello di Mulchay, dimostra che fra coloro che cessano di fumare dopo il primo infarto del miocardio si verifica una riduzione della mortalità a medio e lungo termine del 50%, anche se il rischio scompare del tutto dopo 15 anni dalla sospensione.

Tra i farmaci antianginosi, nel fumatore i beta-bloccanti sono preferibili alla nifedipina. Ciò si spiega bene con l’effetto tachicardizzante del fumo: la tachicardia è molto meglio controllata dai beta-bloccanti che non dalla nifedipina.

Non vanno trascurati poi i rapporti con la personalità del soggetto. Il rischio di morbilità e di mortalità cardiovascolare aumenta se il fumatore è di personalità “A”: si tratta di individui irascibili, con frequenti esplosioni di ira, spesso ombrosi, morbosamente attaccati alla propria carriera che vogliono prepotentemente salire senza alcuno scrupolo, incuranti dei diritti degli altri; soggetti, in altre parole, che non sanno sorridere. Viceversa, la personalità “B” con un temperamento diametralmente opposto, è notevolmente protetta.

Parafrasando il linguaggio sportivo, questa è l’unica situazione della vita nella quale c’è da augurarsi che chi sta in serie “A” venga retrocesso in serie “B”.

Per quanto riguarda l’ictus, una delle più vaste ricerche è il follow-up di 12 anni del campione hawaiano di maschi di origine giapponese, reclutati per l’”Honolulu Heart Program”. Sono stati riscontrati 171 casi di ictus cerebrale tra i 3.435 fumatori e 117 tra i 4.437 non fumatori.

Sul totale di 288 casi, l’ictus era tromboembolico in 189 casi ed emorragico in 75, di natura non determinata negli altri. Escludendo altre variabili come età, coronaropatie e ipertensione, il rischio di ictus era 2 – 3 volte superiore nei fumatori rispetto ai non fumatori, e sino a 4 – 6 volte superiore considerando solamente gli eventi emorragici. Per le forme trombotiche cerebrali, il meccanismo patogenetico va individuato nell’incremento del fibrinogeno e degli altri fattori della coagulazione piastrinica e della viscosità ematica.

Più incerto è il rapporto con le forme emorragiche, probabilmente mediato dalle catecolamine.
Che ne è del rischio-ictus dopo la sospensione del fumo? Nell’ “Honolulu Heart Program” esso si riduceva di oltre il 50% per i fumatori che avevano smesso di fumare al controllo del sesto anno rispetto a quelli che continuavano a fumare, osservazione di sicuro interesse agli effetti pratici e preventivi.

Tra le malformazioni arteriose congenite una delle più frequenti (0,5% dei casi) è un’arteria ombelicale unica (anziché duplice), statisticamente associata al tabagismo materno. Tale arteria unica è significativamente accompagnata a basso peso alla nascita (inferiore a kg 2,5), nascita prematura (inferiore alle 37 settimane), aumentata mortalità perinatale, altre importanti malformazioni congenite, aspetto meno florido rispetto ai neonati da madri non fumatrici.

I polsi arteriosi distali, tibiale posteriore e pedidio, nei fumatori sono spesso assenti al momento del ricovero ospedaliero: se poi il paziente sospende il fumo, essi dopo qualche giorno spesso ricompaiono, a dimostrazione dell’effetto vasospastico di questo tossico. Per quanto riguarda le grandi e medie arterie, il fumo rende più spesse e più rigide le loro pareti, come è ben documentato dall’esame eco-Doppler, facendo aumentare, fra l’altro, il collagene, il colesterolo e le fibrocellule muscolari liscie. Sono questi i più salienti meccanismi patogenetici che aiutano a spiegare la sua azione favorente l’arteriosclerosi.

Anche la chirurgia vascolare è interessata dal tabagismo: in arteriopatici operati di by-pass femoro-popliteo con innesto venoso il fumo ha determinato un non raro fallimento dell’intervento per l’occlusione trombotica della vena trapiantata.

In una ricerca del nostro gruppo dell’Ospedale San Giovanni, a Roma, su 60 soggetti arteriopatici fumatori e non, abbiamo rilevato nei fumatori un significativo accorciamento dell’autonomia di marcia e una più precoce comparsa della “claudicatio intermittens” rispetto ai controlli.

L’effetto intensamente vasospastico del fumo l’abbiamo chiaramente dimostrato mediante il reogramma con il test al nitrito. In fumatori accaniti con il reogramma di base abbiamo spesso trovato una marcata iposfigmia, fino ad avere in alcuni casi un reogramma “piatto” con linea isoelettrica, sì da temere uno stadio molto avanzato dell’arteriopatia stenosante.

L’aver poi ottenuto, cinque minuti dopo il nitrito perlinguale, la comparsa di una perfetta onda sfigmica convince anche i più scettici su questo effetto vasocostrittore della nicotina.

Nell’impotenza maschile è coinvolto anche il tabagismo. La ben nota azione vasospastica della nicotina compromette facilmente l’erezione (basta una sola sigaretta per ridurre il flusso sanguigno del pene) anche perché le sue arterie, più sottili di quelle del cuore, sono strettamente suscettibili a tutti quei fattori che concorrono alla loro chiusura, quali – oltre al fumo – l’arteriosclerosi e il diabete.

Ma nel diabetico, oltre a questa microangiopatia, può essere in causa anche la macroangiopatia diabetica con ateromi stenosanti.

I corpi cavernosi sono molto ricchi di fibre nervose nitergiche le quali – per azione dell’ossido nitrico (NO)- hanno effetto vasodilatante (“tono nitrergico”), sono cioè NO-dipendenti. Il fumo, inibendo la produzione di NO, ostacola perciò l’erezione. Inoltre, per la concomitante arteriosclerosi peniena, propria dell’età avanzata, le conseguenze negative del tabagismo in questo settore sono più evidenti dopo i 60 anni di età.

Del morbo di Burger o tromboangioite obliterante – rara e grave malattia infiammatoria delle arterie con inizio in età giovanile, di regola prima dei 40 anni – non si sa quasi nulla sulle vere cause, a parte l’assetto costituzionale rappresentato dall’ipoplasia dei vasi arteriosi.

L’unico dato noto, che trova tutti gli studiosi d’accordo, è la possibilità di arrestare l’affezione in una fase precocissima con l’astensione dal fumo, compreso il “passive smoking”.

Le riacutizzazioni dolorose della malattia – con intensi dolori specialmente notturni – compaiono spesso se il paziente fuma, anche pochissimo: pertanto egli non solo non deve fumare, ma non deve neppure essere avvicinato da persone che indossino abiti intrisi di fumo.

Nella divisione di Angiologia della Mayo Clinic di Boston (USA) è scritto a grandi lettere sulle pareti:”potete conservare la sigaretta o le gambe, non tutte e due”.

I danni del tabagismo nel morbo di Burger sono poi aggravati dal suo “effetto-droga”: il fumatore, anche se cosciente dell’insulto arterioso arrecato dal fumo è incapace di liberarsene (“meliora probo, deteriora proseguo”).
Tale effetto droga lo abbiamo osservato in modo ineccepibile proprio in questa affezione.

Anni or sono avemmo ricoverato in corsia un giovane con il morbo di Burger di 34 anni, che dovemmo far amputare di coscia per gangrena ischemica di un piede non più controllabile con i farmaci: dimesso dall’ospedale su una carrozzella, uscì con la sigaretta in bocca.

Quasi due anni dopo fu ancora nostro ospite per essere amputato all’altra gamba. Nel microcircolo i danni del fumo coinvolgono i parametri emoreologici, emodinamici e metabolici:

  1. la filtrabilità eritrocitaria diminuisce;
  2. l’aggregazione piastrinica aumenta. Da osservazioni personali, durante uno studio sull’indobufene, il fumo di una sola sigaretta ne determinò un marcato incremento;
  3. la viscosità ematica aumenta;
  4. la carbossiemoglobina del sangue venoso aumenta;
  5. il flusso ematico a riposo e durante iperemia reattiva post-ischemica, studiata con la pletismografia “strain gauge”, è compromesso: è alterata in particolare la fase terminale dell’iperemia reattiva con allungamento del tempo totale.

Tra le varie sostanze responsabili dello spasmo del microcircolo va segnalata l’endotelina, vasocostrittrice appunto, prodotta dall’endotelio alterato (”laboratorio endoteliale”).

Orbene, la produzione di endotelina viene stimolata dal fumo come pure dagli altri fattori di rischio quali diabete, l’ipertensione, il colesterolo LDL ossidato, angiotensina II.