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DB-01-2012

db 1 2012

SOMMARIO

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L’editoriale
Fernando Patrizi

LA TUBERCOLOSI LATENTE
Augusto Vellucci

MIXING
ALESSANDRO CIAMMAICHELLA

CON LA “PRECISION MEDICINE” UNA RIVOLUZIONE GIÀ INIZIATA
Giuseppe Luzi

UN AMICO INSIDIOSO NON PER COLPA SUA. ALLERGIA AL GATTO
Giuseppe Luzi

CONTENERE IL RISCHIO DI IPERTENSIONE ARTERIOSA
Alessandra Fabretto

LA PRO-CALCITONINA: SUO IMPIEGO PER LA DIAGNOSI DELLE INFEZIONI E DELLE SEPSI BATTERICHE E COME AUSILIO-GUIDA PER LA TERAPIA ANTIBIOTICA
Augusto Vellucci

MORBO DI PAGET OSSEO E ARTRITE REUMATOIDE A ESORDIO TARDIVO
Lelio R. Zorzin

FROM BENCH TO BEDSIDE
I BENEFICI CLINICI DELLA RICERCA: SELEZIONE DALLA LETTERATURA SCIENTIFICA
Maria Giuditta Valorani


SANITÀ PUBBLICA E PRIVATA: L’INTEGRAZIONE NON PUÒ PIÙ ATTENDERE, NELL’INTERESSE DI TUTTI

L’inizio del 2012, “battezzato” con un ulteriore taglio del 3% del sempre più esiguo budget assegnato ai poliambulatori privati per i servizi accreditati con il SSR, dopo un 2011 di certo non diverso e migliore degli anni precedenti per quanto riguarda le difficili condizioni nelle quali opera la sanità privata, mette ancora di più in evidenza come sia complesso gestire il rischio imprenditoriale in questo settore della vita sociale.

Più in generale è comunque indubbio che a causa dell’accentuarsi dei tagli progressivi anche nella sanità pubblica, sono emersi in modo ancora più evidente i mali del sistema che si traducono in continui disservizi per gli assistiti. È bene sottolineare che se in una prima fase dei tagli “storicamente” imposti dalle condizioni economiche disastrose della Regione Lazio si poteva forse giustificare, da parte dei responsabili politici, la difficoltà a comprendere ed operare i più opportuni distinguo nell’ambito delle situazioni gestionali che contraddistinguono i servizi sanitari pubblici e privati accreditati, oggi è davvero deprimente dover continuare ad assistere alla prosecuzione indiscriminata della politica dei tagli direi ormai solo su base aritmetica.
Non ci stancheremo mai di ripetere che mentre i costi di gestione dei servizi nel privato convenzionato sono certi perché predeterminati, quelli nel pubblico invece non lo sono e in molti casi risultano superiori ai costi del privato e quindi tagliando i secondi aumentano i primi. Prendiamo, tra i tanti possibili, un esempio pratico: quando il cittadino deve fare le analisi prescritte dal suo medico nel mese di ottobre e verosimilmente il suo laboratorio di fiducia ha superato il budget predeterminato, se decide di ricevere l’assistenza deve andare in una struttura pubblica, dove effettivamente non pagherà o pagherà il solo ticket, ma alla resa dei conti per lo Stato/Regione non si sarà risparmiato nulla e, al contrario, dati i maggiori costi per assicurare il servizio pubblico rispetto a quelli privati, quelle analisi alla fine costeranno di più alla collettività…

Siamo ben consapevoli che alcune prestazioni e terapie, per i costi, per la complessità degli interventi, per il tipo di gestione che alcune apparecchiature richiedono, non possono che essere fornite in ambito pubblico. Ma questa visione può indurre un falso aspetto interpretativo della realtà. Infatti la gestione della salute va intesa a 360 gradi, non solo nell’ambito di configurazioni di estrema urgenza o di particolare complessità. Oggi, giustamente, si parla di governance in ambiente sanitario, di appropriatezza delle prestazioni, della gestione del rischio. Ma piuttosto che intervenire su ritardi e dispersioni organizzative, talora con aspetti punitivi per l’utenza, non è meglio “giocare d’anticipo” fornendo prestazioni economicamente accessibili in tempo reale? Questo è particolarmente vero quando si tratta di delineare profili diagnostici adeguati, tenendo ben separato il ruolo delle strutture a piena configurazione pubblica da quelle private.
Il cittadino/utente deve essere garantito, grazie alla politica di welfare, in un assetto gestionale che non rappresenti una scelta occasionale o provvisoria. Per esempio l’attesa di un’ecografia prolungata per settimane, al di là di situazioni ovvie per urgenza e rischio implicito nella sintomatologia, non rappresenta già di per sé un default di qualità assistenziale? Se esiste una coerenza tra sospetto diagnostico e necessità di verifica questa deve essere dimostrata sul campo, in tempo reale o, se si vuole, realisticamente accettabile! Prova ne sia se consideriamo l’utilità dei check up mirati, con i quali, in soggetti privi di ogni sintomatologia e in pieno benessere, si evidenziano patologie insospettate/insospettabili (dalla calcolosi renale, alle linfoadenopatie da verificare, dal diabete alla presenza di sangue occulto nelle feci e così via).

Nessun cittadino italiano ignora la crisi economico-finanziaria che anche la nostra nazione sta attraversando. Proprio per questa consapevolezza la diminuita capacità di spesa delle istituzioni e dei singoli cittadini impone una riqualificazione sistemica nella gestione della salute pubblica: un’ottimale integrazione tra sanità privata e servizio pubblico non è un auspicio ma una necessità.


LA TUBERCOLOSI LATENTE

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Dopo la scoperta della streptomicina, prima molecola attiva sul “bacillo di Koch” meglio denominato micobatterio della tubercolosi, effettuata nel 1944 nel suo laboratorio del New Jersey, il prof. Selman Waksman, poi premio Nobel, scrisse: “la vecchia nemica dell’umanità, la tisi, sta per essere ridotta a un problema irrilevante per l’uomo; la completa eradicazione di questa malattia è ormai all’orizzonte!” Mai previsione fu così errata!
Annualmente oltre 8 milioni di persone si ammalano di Tubercolosi (TB), e oltre 2 milioni muoiono a causa della malattia. Nel 2009 i casi accertati di TB nel mondo sono stati circa 9.4 milioni; pure nel 2010 circa 9 milioni di persone sono risultate affette, con oltre 5 milioni di nuovi casi.
Anche se da qualche anno si assiste a una riduzione della TB, specie nei Paesi industrializzati, questa rimane una delle maggiori cause di morte nel mondo; senza cure il 70 % dei malati muore entro 10 anni.
Effettuando invece una diagnosi precoce e un trattamento adeguato la mortalità si riduce notevolmente, con percentuali di guarigione fino al 90% dei casi ben trattati.

L’INFEZIONE TUBERCOLARE

È ovvio che per curare un soggetto affetto da TB è anzitutto fondamentale diagnosticare la malattia. E qui nasce la necessità di conoscere le caratteristiche del tutto particolari di come, in un soggetto che si infetta, evolve la malattia tubercolare.
Quando una persona inala goccioline (“droplet nuclei”) di espettorato contenenti il micobatterio, emesse da un paziente malato (un solo colpo di tosse può contenere fino a 3.000 nuclei contaminati e un singolo starnuto può rilasciarne fino a 40.000; e ognuna di queste gocce può trasmettere la malattia, poiché la dose infettante della tubercolosi è molto piccola), la maggior parte dei microbi inalati viene bloccata ed eliminata dalle difese delle vie respiratorie alte; ma una parte può comunque raggiungere gli alveoli. Qui i germi vengono fagocitati dalla cellule difensive presenti, i cosiddetti macrofagi alveolari che li distruggono, inviando in circolo, nel contempo, segnali citochinici (TNF, IL-1, ecc.) che mettono in moto l’intera risposta infiammatoria (febbre, perdita di peso, ecc.).
Talora però i germi prendono il sopravvento e si moltiplicano tumultuosamente nello stesso ambiente intracellulare, distruggendo sia i macrofagi che li hanno inglobati sia gli altri che, accorsi dal settore monocitario ematico, avevano fagocitato a loro volta i bacilli rilasciati dalle cellule distrutte.

E così l’infezione tubercolare si espande: i microbi raggiungono, per via linfatica, i linfonodi regionali e poi, per via ematica, i tessuti e gli organi più distanti, dove lesioni secondarie si possono sviluppare e far insorgere la malattia tubercolare clinicamente evidente.
Fortunatamente però solo in una piccola percentuale dei casi (vedi schema seguente) l’infezione dà origine alla cosiddetta tubercolosi primaria, con la nota sintomatologia generale (febbre, anoressia, perdita di peso, sudorazione notturna, ecc.) e locale (a seconda degli organi interessati: tosse, emottisi, pleurite, linfadenomegalie, meningiti, lesioni articolari, genito-urinarie, ecc.).
Ma, nella maggior parte dei casi, per l’effetto di una valida reazione immunitaria, si instaura la cosiddetta “tubercolosi latente” (latent tubercular infection: LTBI): il soggetto cioè resta infetto, ma non malato, del tutto asintomatico e non idoneo a trasmettere la TB. Egli è insomma un portatore nel suo organismo di micobatteri tubercolari, definiti “dormienti”, ma sempre pronti, se le difese immunitarie si indeboliscono, a risvegliarsi e a dare origine alla tubercolosi post-primaria.
La tubercolosi latente è clinicamente muta, e può essere evidenziata solamente con due indagini: il Test TST e le analisi IGRAs (vedi poi).

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Quindi, ricapitolando, il fatto di maggior rilievo è che i soggetti infettati dal Mycobacterium tuberculosis possono rimanere tali a lungo, diventando portatori di una TB latente del tutto asintomatica, che può evolvere in tubercolosi clinicamente attiva nel 2-20% dei casi, anche diversi anni dopo l’istaurarsi dell’infezione.
Il rischio di riattivazione aumenta in tutti i casi di immunodepressione, come Aids, assunzione di droghe, corticosteroidi e anticorpi anticitochine, malattie ematologiche e reticoloendoteliali, ecc.
Insomma l’evoluzione della tubercolosi latente è modulata dalla continua competizione tra il micobatterio e la capacità difensiva del sistema immunitario del soggetto infetto.
È quindi fondamentale conoscere quali siano le difese che si attivano in corso di infezione tubercolare. Quasi contemporaneamente all’imponente attività fagocitante dei macrofagi alveolari e di tutti i fagociti richiamati per opporsi al micobatterio inalato, viene messa in moto la risposta immunitaria cosiddetta cellulo-mediata, in quanto i macrofagi alveolari, mentre continuano a lottare contro l’invasore microbico, mandano segnali che attivano gli specifici linfociti, chiamati CD4.

Questi linfociti svolgono due principali funzioni (che rimangono attive finché persiste l’infezione tubercolare, anche se latente):
•    producono molte citochine (tra le quali l’“interferon gamma”), specifiche proprio per i macrofagi che le hanno stimolate, che vanno a potenziare la loro attività antimicrobica (“macrophage-activating response”);
•    danno origine ai linfociti T CD8 citotossici, cellule che si uniscono ai macrofagi nella risposta difensiva; tutti insieme agiscono per il killing dei micobatteri e per la formazione dei granulomi, i cosiddetti tubercoli (che hanno dato il nome alla malattia), nei quali i bacilli di Koch vengono bloccati e “murati vivi”.

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Quest’ultima tuttavia è una vera risposta tissutale dannosa (“tissue damaging response”) rivolta, attraverso una reazione di ipersensibilità ritardata (“DTH – Delayed Type Hypersensitivity”), verso diversi antigeni del bacillo di Koch; tale azione determina la distruzione dei macrofagi ricchi di bacilli ancora virulenti ma anche una flogosi talora necrotizzante dei tessuti che possano albergare antigeni tubercolari.
E allora se, come abbiamo detto, i soggetti infetti dal Mycobacterium tuberculosis possono essere portatori di una TB latente del tutto asintomatica e in essi esiste sempre il pericolo che possa svilupparsi una Tubercolosi clinicamente evidente anche diversi anni dopo l’istaurarsi dell’infezione, sorgono due domande fondamentali:
A)     come facciamo a sapere se un soggetto esposto al contagio tubercolare ha sviluppato una TB latente?
B)     in tal caso, come possiamo operare per evitare che l’infezione latente possa riaccendersi e dare origine alla malattia tubercolare post-primaria?

A) TEST DIAGNOSTICI PER RIVELARE   LA TB LATENTE

Per rispondere al primo quesito, si utilizzano proprio le conoscenze sulle modalità di reazione immunitaria già brevemente descritte.
Abbiamo detto che, quando il micobatterio tubercolare viene captato dai macrofagi alveolari, questi attivano la risposta immunitaria dei linfociti T-CD4, i quali operano su due direttive:
1)     mettono in moto una specifica reazione cellulo-mediata di tipo citotossico e di immunità ritardata, che viene utilizzata nella reazione cutanea alla tubercolina (TST: Tuberculin Skin Test);
2)     secernono un interferon gamma (IFN-) specifico per gli antigeni tubercolari, la cui presenza viene ricercata con le prove denominate IGRAs (Interferon Gamma Release Assays ), il noto QuantiFERON-TB.

1. Tuberculin Skin Test (TST) o test di Mantoux

Rappresenta il metodo standard per determinare se una persona è infettata dal micobatterio della tubercolosi.

La TUBERCOLINA: Koch scoprì che le reazioni osservate dopo l’iniezione di bacilli nella cavia tubercolotica comparivano anche se venivano inoculati bacilli morti. In particolare, si osservavano con estratti glicerinati di colture di vari ceppi di Mycobacterium tuberculosis, preparati a caldo e sterilizzati, da cui si otteneva un liquido vischioso e di colore bruno a cui Koch diede il nome di “tubercolina” (oggi nota come OT “old tuberculin”). È stata utilizzata, nella diagnostica tubercolare, fin dal 1906 con la cosiddetta «cutireazione di von Pirquet», che consisteva nell’applicare una goccia di OT su di una scarificazione praticata sulla cute.
Attorno agli anni sessanta del XX secolo venne preparata la tubercolina PPD (Purified Protein Derivative), ottenuta per frazionamento chimico della tubercolina vecchia. La PPD si ottiene da frazioni solubili in acqua, preparate scaldando al vapore libero e successivamente filtrando le colture del bacillo di Koch che si sono sviluppate in un substrato liquido sintetico. La frazione attiva del filtrato, proteica, viene isolata per precipitazione, lavata e nuovamente diluita e addizionata con varie sostanze antimicrobiche, come il fenolo.

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Come abbiamo accennato il TST è basato sulla reazione di ipersensibilità ritardata (Delayed-Type Hypersensitivity – DTH) indotta dall’infezione TB, che lascia nel soggetto infetto una memoria immunitaria cellulo-mediata anticorpo-indipendente (cell-mediated immune memory response, antibody-independent) nei riguardi di sostanze derivate dal bacillo; si impiega appunto la Tubercolina PPD.
Il test consiste nell’iniezione intradermica, sulla faccia palmare dell’avambraccio, di una quantità nota di tubercolina, in 0.1 ml di liquido; in genere la somministrazione produce una piccola elevazione della cute di 6-10 mm di diametro.
Risulta positivo quando il tessuto iniettato sviluppa in 48-72 ore un rigonfiamento piuttosto duro di alcuni mm di diametro (vedi successivamente). La reazione va letta misurando le dimensioni della zona indurita (palpabile perché di poco sollevata sulla cute circostante), ma non dell’arrossamento eventualmente presente. Il diametro della tumefazione deve essere misurato secondo la perpendicolare all’asse lungo dell’avambraccio.
Una positività al test è indice dell’avvenuto contatto del paziente con il batterio della tubercolosi o con la tossina iniettata, ma non prova lo stato della malattia. Per questo motivo, soggetti positivi al test Mantoux vengono sottoposti ad ulteriori ricerche diagnostiche, discriminanti la presenza o meno della tubercolosi.

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Gli immunizzati alla TB mediante il vaccino BCG (che contiene antigeni in comune con la PPD) possono mostrare al test cutaneo una ipersensibilità ritardata identica a coloro che hanno l’infezione attiva; quindi il test deve essere utilizzato con cautela, specialmente sulle persone provenienti da paesi dove l’immunizzazione alla TB è diffusa. È anche possibile rilevare un test falsamente positivo, per la presenza di infezioni sostenute da micobatteri non tubercolari.
Va infine considerata la possibilità di osservare reazioni falsamente negative, sia per errata esecuzione della prova e sia per varie cause (anergia cutanea, recenti vaccinazioni con virus attenuati, malattie infettive in atto, ecc.); frequente la falsa negatività nei bambini di età inferiore ai 6 mesi.
Comunque i criteri per considerare la positività della reazione debbono essere valutati in relazione alle caratteristiche del soggetto in esame.

Secondo il CDC USA (Centers for Disease Control – Atlanta) si dovrebbero valutare come segue:

Un indurimento di 5 o più mm è considerato positivo in:
•     persone HIV infette;
•     recente contatto con una persona affetta da malattia TB;
•     pazienti organo-trapiantati;
•     pazienti immuno-depressi per altre patologie o trattamenti farmacologici (cortisonici, TNF antagonisti, ecc.);
•     pazienti con segni fibrotici al torace da pregressa TB.
Un indurimento di 10 o più mm è considerato positivo in:
•     immigranti recenti (da meno di 5 anni) da regioni ad alta prevalenza tubercolare ;
•     soggetti che si iniettano droghe;
•     personale di laboratori micobatteriologici;
•     bambini di età fino a 4 anni;
•     bambini e adolescenti esposti ad adulti appartenenti a categorie ad alto rischio.
Un indurimento di 15 o più mm è considerato positivo in:
•     ogni persona, anche se senza alcun particolare fattore di rischio (comunque il test abitualmente non va effettuato in tali soggetti).
Ricordiamo infine che in alcuni portatori di infezione tubercolare la capacità di reagire positivamente alla tubercolina può affievolirsi, fino a scomparire; ciò può essere causa di una falsa negatività. Ma il test effettuato, anche se negativo, può essere fonte di stimolo al sistema immunitario per il cosiddetto effetto “booster”, tale da rendere positiva una successiva intradermoreazione (2-step TST screening). Può essere utile effettuare tale prova, che accerterebbe l’esistenza di una infezione latente anche in coloro che risultano negativi alla prima TST. Questo test ripetuto due volte va consigliato soprattutto nei soggetti che periodicamente vanno ritestati (infermieri, assistenti all’infanzia, ecc.) o nei viaggiatori che si recano in regioni ad alta incidenza tubercolare; ciò aiuta a non classificare come recenti le conversioni TST che potrebbero comparire nei successivi controlli.

2. IGRAs (Interferon Gamma Release Assays): QuantiFERON-TB

Fino al 2001 l’intradermoreazione alla tubercolina era l’unico test disponibile per l’accertamento di una infezione tubercolare. Dopo il riconoscimento che la sintesi di interferon gamma da parte dei linfociti T-CD4 specificamente attivati nella infezione TB svolge un ruolo critico nel processo, sono state preparate le indagini in vitro denominate appunto IGRAs (Interferon Gamma Release Assays): i linfociti del soggetto infettato dal Micobatterio tubercolare rilasceranno interferon gamma in risposta al contatto con antigeni tubercolari.
La prima IGRA, preparata nel 2001 e denominata QuantiFERON-TB test (QFT), si basava sulla quantificazione, mediante metodica ELISA, dell’interferon gamma rilasciato dai linfociti (sensibilizzati dall’infezione) nel sangue intero incubato per una notte con PPD, confrontando il tutto con opportuni antigeni di controllo.

Dopo qualche anno il QFT è stato abbandonato, perché si è dimostrato privo della specificità necessaria. Si è tentato allora di preparare metodiche più specifiche. Come stimolo per la produzione dell’interferon da parte dei linfociti testati, invece del PPD, sono stati preparati peptidi sintetici che rappresentano proteine presenti in tutti i micobatteri tubercolari, come l’ESAT-6 (Early Secretory Antigenic Target-6) e il CFP-10 (Culture Filtrate Protein-10); queste sostanze sono assenti dal vaccino BCG (una pregressa vaccinazione non interferisce quindi con la prova) e da molti micobatteri non tubercolari (anche se presenti in alcuni, come i M. szulgai, kansasii e marinum). In questo test, dato che i peptidi impiegati stimolano una minore produzione di interferon gamma, è necessaria una metodica ELISA più sensibile di quella usata nel QFT.

Il nuovo test è stato disponibile nel 2005 con il nome di QuantiFERON-TB Gold test (QFT-G): separate aliquote di sangue fresco intero sono incubate con due diverse misture di peptidi, una con ESAT-6 e una con CFP-10 e si calcola la differenza tra la concentrazione di INF-gamma nei campioni di sangue stimolati con gli antigeni (la più alta quantità osservata con uno dei due) e quella del controllo di sangue cui è stata aggiunta solo soluzione fisiologica. È importante poter disporre di un campione di sangue fresco, prelevato di recente; effettuare la prova ore dopo la sua raccolta potrebbe interferire con la vitalità dei linfociti e quindi alterare l’esame.
È stata allora approntata, nel 2007, una terza tecnica IGRA, denominata QuantiFERON-TB Gold In-Tube Test (QFT-GIT). Il materiale di controllo e gli antigeni sono contenuti in speciali tubi nei quali si raccoglie il sangue fresco da testare. In uno è presente una miscela di 14 peptidi che rappresentano tutte le sequenze di amino-acidi ESAT-6 e CFP-10 e una parte della sequenza del TB7.7; altri due tubi servono per i controlli. Il sangue del soggetto in esame si introduce nei tre tubi e viene incubato per 16-24 ore; poi si determina nel plasma la concentrazione di INF-gamma con la metodica ELISA usata nel QFT-G, raffrontando quella del tubo contenente gli antigeni con quella dei controlli.

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Nel 2008 si è resa disponibile una quarta metodica IGRA, denominata T-spot-TB-test, nella quale vengono incubate cellule ematiche mononucleate con due miscele dei soliti peptidi (l’intera sequenza amino-acidica di ESAT-6 e CFP-10) e la lettura si effettua con il test ELI-spot (enzyme-linked immunospot assay) che evidenzia l’incremento delle cellule che secernono l’INF-gamma dopo stimolazione.
Comparati alla Mantoux, i risultati del QuantiFERON sono meno soggetti a errori, soprattutto nella esecuzione della prova e nella lettura. Il QTF richiede una puntura venosa (con l’impiego del campione entro 12 ore dalla raccolta), viene effettuato dopo un solo incontro col paziente (il TST ne richiede almeno due), permette di studiare la risposta linfocitaria ad antigeni multipli simultaneamente, non induce risposta anamnestica “boosted” in un test ripetuto successivamente, e può dare la risposta entro 24 ore dal prelievo.

Risulta difficile riconoscere, per le metodiche IGRAs, la precisa specificità (proporzione dei veri negativi che hanno il test negativo) e sensibilità (proporzione dei veri positivi che hanno il test positivo). Ad esempio, per il QFT-GIT la specificità raggiunge anche il 99% (nello stesso studio la TST aveva una specificità dell’85%) e la sensibilità si attesta intorno all’81%.
Comunque, la TST e il QuantiFERON non misurano le stesse componenti della risposta immunologica al micobatterio e, anche se rivolte alla stessa finalità, non sono intercambiabili, anche perché non impiegano gli stessi antigeni e gli stessi criteri di interpretazione. Insomma i diversi test possono dare differenti risultati.
La concordanza tra le due indagini è anche influenzata, come abbiamo detto, da una precedente vaccinazione con BCG (che impiega un ceppo attenuato di Micobatterio bovis), dalla reattività immune a Micobatteri non tubercolari e dalla risposta positiva a precedenti TST. È stata calcolata una discordanza del 15% tra i due test, spesso con TST positivo e IGRA negativo.
In generale non è indicato effettuare ambedue le prove, ma, se si decide di farle entrambe, si consiglia di fare prima il TST e poi l’IGRA dato che è meno frequente osservare TST negativo e poi IGRA positivo. Però, in talune osservazioni (Diel R. et al. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 1164-1170), viene riferito che, in soggetti immunocompetenti recentemente esposti a contatti stretti con casi di tubercolosi attiva, la progressione verso la comparsa della malattia negli individui QFT positivi, non trattati, era significativamente più grande rispetto a quelli, non trattati, TST positivi (14.6% verso 2.3%); i contatti che hanno sviluppato la malattia erano tutti QTF positivi, ma solo l’83% erano TST positivi.
Secondo le ultime linee-guida CDC USA del giugno 2010, i test IGRAs per l’accertamento della tubercolosi latente sono particolarmente indicati nei soggetti già vaccinati con il BCG e per coloro che non possono tornare una seconda volta per la lettura del TST.

Un problema particolare è quello dell’impiego degli IGRAs nei bambini, specie in quelli di età inferiore ai 5 anni. Gli studi al riguardo sono pochi e non permettono valutazioni conclusive. In queste età, la frequenza della progressione dalla TB latente alla TB conclamata (con malattia disseminata, meningite, ecc., fino al decesso) è decisamente più alta che nei soggetti con maggiore età; il bambino ha un rischio maggiore di sviluppare malattia tubercolare severa, in particolare se di età inferiore ai 5 anni. E poi il 40% dei bambini di età inferiore a un anno con infezione tubercolare latente sviluppa malattia disseminata rispetto all’1 % degli adulti immunocompetenti.
Pertanto è difficile valutare gli IGRAs in bambini con meno di 5 anni e soprattutto nei neonati nei primi sei mesi di vita. Una interpretazione della minore validità degli IGRAs in queste età (non da tutti condivisa) è quella della minore produzione, da parte dei linfociti dei piccoli bambini, dell’Interferon gamma in risposta agli antigeni micobatterici.
Resta il convincimento dell’American Academy of Pediatrics che il TST sia preferibile per testare bambini con età inferiore ai 5 anni; ma alcuni esperti consigliano, data l’incertezza di queste indagini in tale età, di impiegare sia il TST sia un IGRA per aumentare la sensibilità diagnostica.
Riteniamo utile ricordare alcune raccomandazioni sull’infezione tubercolare latente.

Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali (Italia, 2009)

* Come test di riferimento per la diagnosi di infezione tubercolare nei contatti va considerato attualmente il test tubercolinico con il metodo Mantoux (TST).
* Negli individui vaccinati con BCG, l’uso di test basati sul rilascio di interferone gamma (IGRA) è raccomandato come test di conferma nei pazienti risultati positivi alla intradermoreazione.
* Nei bambini di età inferiore o uguale a 5 anni e nei soggetti gravemente immunodepressi è consigliata una valutazione clinica completa compresa la radiografia del torace, anche in presenza di un TST e/o IGRA negativo.

Raccomandazioni dell’American Academy of Pediatrics (2009)

* Per il bambino immunocompetente di età ≥ 5 anni gli IGRA devono essere usati al posto del test cutaneo per confermare la diagnosi di tubercolosi latente e probabilmente sono meno gravati da falsi positivi.
* I bambini con IGRA positivo devono essere considerati infetti da M.tuberculosis complex. Un IGRA negativo non può sempre essere interpretato come assenza di infezione.
* Per la maggiore specificità e la mancanza di reazione crociata con BCG, gli IGRA sono utili nel bambino vaccinato con BCG.
* Per il bambino di età < 5 anni e il bambino immunocompromesso di qualsiasi età gli IGRA non sono raccomandati di routine perché mancano dati sulla loro utilità in questi casi.
* L’uso dei risultati del QuantiFeron piuttosto che del test di Mantoux per decidere il trattamento di profilassi nel contesto dello screening per TBL ridurrebbe significativamente (30%) il numero dei bambini trattati.
* Tuttavia sono molto scarsi i dati di incidenza di tubercolosi attiva nel bambino con IGRA neg. che in seguito a contatto con soggetto smear-positivo non sia stato trattato.

Non possiamo chiudere questi rilievi sulla tubercolosi latente senza ricordare ciò che è accaduto in un grande Ospedale romano, il Policlinico “A. Gemelli”, nei primi mesi del 2011, dopo che una infermiera addetta al reparto pediatrico era stata riscontrata affetta da una infezione tubercolare clinicamente attiva. Allo scopo di individuare neonati che, dopo il probabile contagio, avessero sviluppato una TB latente, è stata allora effettuata un’ampia indagine su tutti i bambini nati nel reparto nei mesi da gennaio a luglio, studiandone la reattività al QuantiFERON. Sono risultati positivi alla prova IGRA 122 neonati, nei quali, oltre alla radiografia del torace (risultata sempre normale), si è poi proceduto anche a effettuare la intradermoreazione alla tubercolina. Ma stranamente in tutti i casi IGRA-positivi, la intradermoreazione ha dato esito negativo.
Le risposte, veramente atipiche, sono tutt’ora soggette a contrastate interpretazioni.

B) TB LATENTE (LTBI): PROVVEDIMENTI TERAPEUTICI

Una diagnosi di LTBI richiede che una tubercolosi attiva venga esclusa; si deve effettuare una precisa valutazione medica, con adeguata indagine anamnestica e clinica per accertare eventuali segni e sintomi di malattia, una radiografia del torace e, quando indicati, l’esame dell’espettorato e di altro materiale organico per la ricerca del micobatterio tubercolare. Ricordiamo che né l’IGRA né il TST possono distinguere la LTBI dalla tubercolosi attiva!
I soggetti con LTBI vanno trattati con farmaci per evitare in loro la progressione verso la malattia tubercolare. Il trattamento consigliato, definito “chemioterapia preventiva” o “chemioprofilassi”, è quello di somministrare ISONIAZIDE alla dose giornaliera di 5 mg/kg (fino a 300 mg) per 9 mesi; è possibile anche la somministrazione, per lo stesso periodo, di 15 mg/kg (fino a 900 mg) al dì, solo due volte la settimana. Per evitare l’instaurarsi di una carenza relativa di vitamina B6 (i soggetti dotati di isoforme meno attive dell’enzima acetiltransferasi vanno incontro a una tale carenza, che dipende dalla formazione di complessi isoniazide-vitamina) è utile associare PIRIDOXINA (25-50 mg/die). Un trattamento alternativo può essere effettuato, soprattutto per i soggetti che per patologie epatiche non possono assumere l’isoniazide, con la RIFAMPICINA alla dose di 600 mg/dì (10 mg/kg) per 4 mesi.
Recentemente sono stati pubblicati (MMWR, december 9, 2011; Vol 60; N° 48) i risultati di alcuni studi controllati e randomizzati di un nuovo regime terapeutico costituito da ISONIAZIDE (15 mg/kg, dose media 100 mg, fino a un massimo di 900 mg) e RIFAPENTINA (dosi variabili con il peso corporeo, da 300 a 900 mg), somministrati una volta la settimana per 12 settimane. L’effetto terapeutico, controllato con la DOT (Directly Observed Therapy), è stato uguale a quello degli altri regimi su ricordati.

Il CDC USA dà le seguenti raccomandazioni al riguardo:
* Dodici settimane di somministrazione settimanale controllata (DOT) costituisce una valida alternativa ai 9 mesi dell’auto-assunzione giornaliera di isoniazide.
* Questo regime terapeutico è idoneo per soggetti al di sopra dei 12 anni, ad alto rischio per sviluppare la TB attiva, e senza altre patologie, salvo se affetti da HIV ma non in terapia antiretrovirale.
* La somministrazione giornaliera di isoniazide è il regime preferenziale per ragazzi tra 2 e 11 anni.
* Questo trattamento combinato non è raccomandato per bambini fino a 2 anni, per soggetti affetti da HIV in terapia antiretrovirale (non sono note le interazioni farmacologiche), per donne gravide o che pensano di rimanere incinta durante la terapia.

MIXING

TC SPIRALE
Si differenzia da quella tradizionale in quanto l’apparecchio che emette le radiazioni si muove in modo circolare, anziché a strati: più precisa, più breve esposizione.

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VACCINO ANTI-INFLUENZALE?
Poiché l’influenza può causare problemi quando si complica con una sovrapposizione batterica, per questa prevenzione è più utile un vaccino antibatterico. Si noti poi che l’anziano diabetico risponde meno bene alle vaccinazioni.

02

GLI ANTIMALARICI, OGGI
La profilassi con il malarone compresse deve iniziare 1 o 2 giorni prima di entrare nell’area con malaria endemica, mentre la 1° dose di Larian compresse va assunta una settimana prima della partenza per la zona endemica.

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STENOSI AORTICA SEVERA E DIURETICI
Paziente ricoverata per dispnea ed edemi declivi, che si sono poi aggravati fino all’anasarca con versamenti pleurici ed addominale. Cautela con i diuretici che possono accentuare la preesistente bassa portata (osserv. pers.).

GRATITUDINE
Quando un Primario dei suoi 10 Collaboratori ne promuove uno crea 9 scontenti e un ingrato.

CARNE E TUMORI
Ridurla quando non si è più giovani fa bene per parecchi motivi. In Asia il basso consumo di proteine si accompagna a bassa incidenza del cancro della prostata.

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SINCOPE NEUROMEDIATA
Colpisce i giovani per iperreattività neurovegetativa e gli anziani per precaria omeostasi cardiovascolare. Si distinguono 3 forme: vasovagale o neurocardiogena, visceroriflessa, senocarotidea.

PIASTRINOPENIE: 2 NUOVI FARMACI
Sono il Romiplastine, sottocute, tra poco disponibile in Italia, e l’Eltrombopag, per os: sono agonisti del recettore per la trombopoietina, l’ormone che stimola il midollo osseo a produrre i megacariociti.

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SENSO DI FREDDO DOPO I PASTI
Per l’iperaffiusso di sangue all’apparato digerente, esso viene in parte sottratto agli altri distretti, fra i quali la cute: i termocettori cutanei avvertono l’evento.

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ACIDO IALURONICO
È efficace per varie affezioni delle diverse componenti delle articolazioni, ad esempio nelle lesioni della cuffia dei rotatori della spalla: 2 ml intrarticolari una volta a settimana, proseguire poi a giudizio dell’ortopedico.

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SINDROME DEL LOBO FRONTALE
Quadro psicologico complesso e variabile, con turbe dell’attenzione e della volontà: rallentamento psicomotorio, indifferenza affettiva, superficialità di critica, disinteresse del proprio pensiero.


CON LA “PRECISION MEDICINE” UNA RIVOLUZIONE GIÀ INIZIATA

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Consultando il vocabolario inglese-italiano la parola precision significa, tradotta in lingua italiana, “di precisione”, se usata come aggettivo. In un recente articolo su New England Journal of Medicine (26 gennaio 2012) è apparso l’editoriale dal titolo “Preparing for Precision Medicine” (letteralmente “prepariamoci per una medicina di precisione”). Qualche volta il rendimento concettuale di una traduzione da una lingua all’altra non può essere facilmente calcolato. Cosa vuol dire “di precisione”, che forse in passato e anche ai nostri giorni la medicina è stata o è “imprecisa”? Le cose non stanno letteralmente così, e bisogna riflettere su questo termine alla luce delle forti implicazioni che può avere nell’immediato futuro. L’esempio che ci aiuta a capire il problema sta proprio nell’apertura dell’articolo: è descritto il caso di una donna di 35 anni alla quale viene diagnosticato un cancro del polmone (non-small-cell lung cancer). Gli autori dicono: se questa signora avesse ricevuto la diagnosi nel 2004 e non nel 2011 la situazione sarebbe stata ben diversa.

Cosa è cambiato? Nel 2004 la proposta terapeutica avrebbe offerto un’opportunità con risultati terapeutici favorevoli solo nel 10% dei soggetti affetti da quel tipo di tumore.
Cosa è accaduto nel 2011: attraverso lo studio della biopsia è stato possibile indagare su varianti genetiche che consentono di predire con buona approssimazione se il tumore potrà essere favorevolmente controllato da uno specifico approccio terapeutico. Nell’articolo si descrive come questo tumore abbia avuto risposta positiva a un trattamento selettivo, con remissione di almeno un anno e un solo accettabile effetto collaterale.
Scrivono gli autori: “This scenario illustrates the fundamental idea behind personalized medicine: coupling established clinical-pathological indexes with state-of-the-art molecular profiling to create diagnostic, prognostic, and therapeutic strategies precisely tailored to each patient’s requirements – hence the term precision medicine“. Quindi la medicina di precisione forse è qualche cosa di più della medicina personalizzata comunemente intesa, ma in ogni caso, al di là delle etichette che contagiano le definizioni in campo medico, esprime bene quel futuro ormai prossimo nel quale cambieranno molte cose.

Il punto chiave consiste nelle ricadute progettuali, di investimento scientifico e di strategia aziendale, per puntare a una ricerca diversa nel campo delle tecnologie farmaceutiche. Sappiamo che tra la progettazione di un nuovo farmaco, la sperimentazione necessaria e le procedure di sperimentazione in trial opportunamente significativi per una coerente interpretazione del dato statistico, e l’applicazione nella clinica medica, possono trascorrere anni. E talora lo studio di parametri ampi (anche su grandi numeri), ma non selezionati, non esime dall’intrinseco rischio di indagare su popolazioni di malati eterogenei e con caratteristiche genetiche che sono in grado di alterare inevitabilmente la risposta terapeutica se globalmente considerata. E lo stesso dicasi per le stesse alterazioni anatomico/funzionali (istologia dei tumori, infezioni caratterizzate da virus con genotipo diverso e così via) presenti o riscontrabili nella storia naturale dei diversi processi biologici.

Il primo passo, dunque, è quello di cogliere l’area di rischio nella quale si possa giocare realmente una partita vincente.
Il salto di qualità attraverso un più rigoroso approfondimento della comprensione per i diversi processi patologici è fornito dalla biologia molecolare e dalla genetica. Questo significa che nell’informazione usata per descrivere una patologia di qualsivoglia natura le informazioni sull’assetto molecolare devono diventare parte integrante del processo descrittivo e/o definitorio, in sostanza: bisogna riclassificare le malattie (“…To that end, the World Health Organizations’s century-old International Classification of Diseases must be modernized to take into account the expanding molecular data on health and diseases”). La finalità è assai condivisibile e gli elementi che caratterizzano un quadro morboso debbono includere, quando è possibile, una classificazione riveduta e corretta basata su quella che viene definita la intrinsec biology che si associa ai tradizionali segni e sintomi della “semeiotica medica” classica, rivalutandone e rinforzandone il potenziale informativo.

Questo eccitante momento storico ha in sé un grave rischio. Verrebbe voglia di scherzare un poco sul titolo di un libro di successo (La solitudine dei numeri primi), potendo proporre un altro racconto dal titolo “la solitudine dei medici ultimi” (e intendo qui tutti i medici, qualificati accademicamente, operatori nella pratica clinica, specialisti). La massa di dati a disposizione è enorme. Ad oggi, ma si tratta di cifre in espansione, si calcolano non meno di 2.000 test genetici disponibili per definite condizioni patologiche, e il numero dei test è in crescita velocissima. Sono in corso investimenti per milioni di dollari in progetti per migliorare l’estensione e l’uso di record elettronici ai quali accedere (EHRs, Electronic Health Records). Come possiamo immaginare uno scenario, sommariamente delineato, nel nuovo rapporto tra medico e malato o malato potenziale? Il clinico può disporre di un set esteso di opzioni elettroniche e partire dall’insieme semeiotica classica-EHR per utilizzare test dei quali viene fornito il vero valore informativo/discriminante (sensibilità e specificità), il valore predittivo noto (fino a quel momento) e le linee di lavoro o flusso di lavoro (workflow) che utilizzando opportuni algoritmi sono in grado di facilitare le decisioni sulla base del pacchetto di informazioni acquisito.
Ben si può immaginare come l’utenza abbia necessità di superare un certo livello critico di incertezza e come di conseguenza sia prevedibile un allargamento della forbice nel rapporto di fiducia tra medico-clinico e utente-malato. Questo significa che nuovi paradigmi dovranno essere presi in esame nella formazione universitaria e post-universitaria dei nuovi medici che potranno avvicinarsi alle procedure diagnostiche integrando i livelli di preparazione “classica” e l’insieme dei modelli di medicina molecolare emergenti dal progresso quotidiano in questo settore. La realtà è difficile, ma meno pessimistica di quanto si pensi. Già la rete offre uno spazio di accesso a problematiche selettive partendo da lemmi di linkage che aiutano il clinico nella diagnosi. Diciamo che si tratta di paradigmi ancora artigianali (consultare pubblicazioni, case report, qualche data base), ma questa è la via. Ogni individuo potrà essere trattato …at the right dose, at the right time, with minimum ill consequences and maximum efficacy.
I check-up personalizzati sono ai nostri giorni, con la dovuta prudenza e nella piena consapevolezza del loro importante ma limitato valore predittivo, uno strumento ancora valido per costruire una conoscenza “approssimativa” del rischio. Se in un tempo ragionevole potremo consolidare questo approccio con la medicina di precisione non avremo soltanto utilizzato nella vita reale i contributi derivati dalla ricerca di base, ma con ogni probabilità avremo cambiato la medicina stessa, la gestione economica della sanità e, in qualche modo, anche il concetto di salute.
Una breve, semplice considerazione finale. Nell’esperienza personale di docente universitario una delle domande con le quali, provocatoriamente fatte agli studenti, si suscita sempre una reazione di disagio è: voi come definite lo stato di “malattia”, e, al contrario, cosa significa “stare in salute”? E allora, forse, la malattia implica sempre una definizione necessaria ma non sufficiente a comprenderne il suo significato olistico, di sistema. D’altra parte in qualche modo dobbiamo regolarci con il linguaggio che abbiamo a disposizione, ma almeno, grazie alla (futura?) medicina di precisione ci stiamo avviando all’uso meno ideologico delle etichette con le quali si fanno le diagnosi.
Ricordiamoci, tanto per concludere, che l’ulcera peptica esisteva anche prima del ruolo patogenetico attribuito poi all’Helicobacter pylori. Andiamo a leggere qualche testo prima degli anni Ottanta del XX secolo. Quante sciocchezze troveremo? Il problema non è dire sciocchezze, capita in tutte le discipline, il problema è non confondere uno stato incompleto di conoscenze con la necessità di superarlo comunque “idiopaticamente” senza chiara cognizione di causa. Forse le idee nate con la medicina di precisione ci aiuteranno a superare questo inquietante, ma intellettualmente stimolante, stato di incertezza.

POSSIBILI LINEE DI AZIONE PER IL SUCCESSO DELLA MEDICINA DI PRECISIONE
(stakeholder e progetti)

Governi
Identificazione di aree di priorità dalle quali ottenere i vantaggi più probabili nell’ambito della medicina di precisione.

Ricerca industriale
Rendere disponibili sistemi di EHR (Electronic Health Records) per un approccio clinico integrato e decisionale.

Comunità biomedica
Migliori conoscenze dei meccanismi molecolari alla base dei processi patologici, con nuove forme di training educativo/formativo per il personale sanitario con revisione/aggiornamento della classificazione delle malattie.

Industria farmaceutica
Identificazione di nuovi target applicativi e trial “dedicati”.

Gruppi di azione dei malati
Utilizzo e partecipazione a nuovi strumenti informativi (eventuali focus group).

Sistemi di garanzia e controllo
Elaborazione di strumenti atti a garantire la sicurezza dei pazienti non limitando l’approccio al solo miglioramento della conoscenza e del progresso scientifico.

(Schema semplificato e rielaborato dall’autore derivandolo dall’articolo Preparing for Precision Medicine di R. Mirnezami, J. Nicholson, A. Darzi, N Engl J Med downloaded from njem.org on January 26, 2012).

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UN AMICO INSIDIOSO NON PER COLPA SUA. ALLERGIA AL GATTO

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Sono animali preziosi, variamente collocati nella letteratura e nella leggenda, il loro corpo è agile, flessibile. Camminano in modo silenzioso e possono spiccare grandi salti. Sono vicini all’uomo e ne condividono in vario modo la vita: i gatti. I bambini ci giocano e anche gli adulti traggono vantaggio psicologico dalla loro presenza. Non tutti li amano, ma spesso non ne comprendono la personalità libera. Tuttavia c’è un problema, purtroppo alcuni di coloro che li amano con grande passione, sono “allergici” al gatto.
L’allergia al gatto è una forma particolarmente seria di allergia che può colpire anche se non si è in contatto diretto con l’animale. Ma quando si dice, nel linguaggio comune, “sono allergico al gatto” di cosa in realtà si sta parlando? Quale componente del corpo felino è responsabile del problema? Gli allergeni (le sostanze che inducono allergia) del gatto sono presenti nella saliva e nelle ghiandole sebacee e veicolati dal pelo durante l’operazione di pulizia (si tratta di cellule della pelle che contengono sebo, prodotto dalle ghiandole sebacee del gatto per mantenere il suo pelo lucido e in buona salute). Quando il pelo viene perduto l’allergene tende a disperdersi facilmente nell’ambiente e va depositarsi un po’ dappertutto: finisce sui mobili, sugli abiti, in diversi oggetti manipolati. Viene quindi trasportato verso altri ambienti, in stanza da gioco, nella scuola, in ufficio, di casa in casa. Le componenti chimiche strutturali dell’allergene consentono la sua persistenza ambientale per lungo tempo, anche quando le pulizie effettuate sono accurate e profonde, anche quando l’animale viene allontanato dall’ambiente con grande dolore di chi deve privarsi della sua compagnia.

In termini più dettagliati e, al contrario dell’opinione “popolare”, la vera causa di allergia non è in senso stretto il pelo del gatto, ma la proteina (Fel d1) prodotta da ghiandole salivari e sebacee (e sembra anche da cellule epiteliali squamose basali, in misura molto minore) che finisce nel pelo del gatto. Questo allergene, disperso nell’ambiente circostante viene respirato da persone allergiche. Come si verifica per i pollini o per la polvere, alcuni individui acquisiscono ipersensibilità nei confronti dell’allergene e quando vengono a contatto con il medesimo cominciano i sintomi (prurito ad occhi, naso e gola, comparsa di starnuti a raffica e intasamento mucoso del naso, congiuntivite, fino a serie manifestazioni asmatiche). Si ritiene che circa l’80% delle allergie al gatto siano indotte dall’allergene Fel d1 ed è questo il motivo per cui i gatti sono probabilmente responsabili di due terzi di tutte le allergie causate dagli animali domestici. In realtà il gatto produce diverse glicoproteine ma la Fel d1 risulta essere quella più significativa dal punto di vista della sensibilizzazione allergenica. In parte è regolata dal testosterone perché nei maschi sottoposti a castrazione la sua sintesi diminuisce sensibilmente. Tuttavia la castrazione non riduce la capacità di sensibilizzare soggetti predisposti.

La struttura chimica primaria di Fel d1 è stata determinata: si tratta di una glicoproteina con due eterodimeri connessi mediante legami disolfuro. Il motivo per il quale alcune persone diventano allergiche al Fel d1 (o ad altri allergeni) è piuttosto complesso e ancora non del tutto chiarito. In sostanza Fel d1 induce nel nostro organismo (come per altre allergie) la produzione di una immunoglobulina nota come IgE. Le IgE hanno un ruolo difensivo in natura e servono, per esempio, per contrastare alcune parassitosi. Ma per determinate persone poco fortunate le IgE finiscono con il costituire un rischio. Quando il soggetto allergico si sensibilizza a Fel d1, l’incontro tra IgE e Fel d1 innesca la liberazione di istamina. L’istamina, come è noto, è un mediatore chimico di varie reazioni allergiche. Alcune di queste – fastidiose e insidiose, ma non gravi – possono essere gestite abbastanza bene ma in un significativo numero di casi compaiono manifestazioni asmatiche e l’evento, non raro, può avere diversi livelli di gravità.

Del tutto recentemente una ricerca italiana ha dimostrato che il rischio di sviluppare un’allergia al gatto è maggiore quando l’animale viene adottato da adulti rispetto a quanto accade se la consuetudine con l’animale si instaura da bambini. Sembra cruciale in questo studio il non tenere il gatto in camera da letto. L’indagine è stata pubblicata su J. Allergy Clin Immunol del 9 dicembre 2011 (“Risk factors for new-onset cat sensitization among adults: A population-based international cohort study”. Indoor Working Group of the European Community Respiratory Health Survey II. Unit of Occupational Medicine, University Hospital of Verona, Verona, Italy). I risultati sono derivati da una indagine sulla salute respiratoria nella Comunità europea. In particolare, gli autori hanno preso in considerazione i livelli di immunoglobulina E, l’anticorpo specifico rilasciato dall’organismo in risposta al contatto con pelo di gatto. Lo studio ha dimostrato che il possedere un gatto fin dall’infanzia è un fattore protettivo nei confronti di possibili sensibilizzazioni agli antigeni dell’animale e che un’anamnesi con precedenti altre sensibilizzazioni può favorire l’insorgere dell’allergia.


CONTENERE IL RISCHIO DI IPERTENSIONE ARTERIOSA

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Le malattie cardiovascolari (cv) sono la più frequente causa di invalidità e di morte nei paesi industrializzati. Non è nota la causa scatenante di infarto o ictus, le maggiori patologie cv, ma conosciamo i loro fattori di rischio: una serie di patologie che spesso si presentano nello stesso paziente, sono correlate fra loro e riconoscono frequentemente cause comuni. Al rischio concorrono vari fattori come la familiarità per malattie cv, l’obesità, la vita sedentaria, il fumo, lo stress, il diabete, i livelli di colesterolo e trigliceridi nel sangue.
L’ipertensione arteriosa (IA) dunque è la maggiore causa del rischio cv globale. La normalizzazione della pressione comporta quindi la riduzione del rischio cv, la possibilità cioè che ha un individuo di andare incontro a eventi cv maggiori nei 10 anni successivi alla valutazione.
La pressione arteriosa in un uomo sano deve mantenersi intorno a valori di 120/80 mmHg, solitamente più bassi nei giovani o nelle donne in età fertile, con variazioni in relazione all’attività fisica, allo stato generale dell’organismo, ma sempre entro limiti ben definiti.
Al mantenimento di un buon equilibrio pressorio collaborano in ogni istante molti fattori, sia all’interno dell’apparato cardiovascolare, sia esterni ad esso: neurologici, ormonali, fattori che regolano altre funzioni metaboliche. Ma se questi fattori si alterano per cause note, per malattie intercorrenti o per fattori sconosciuti, osserviamo il progressivo aumento della pressione arteriosa in modo inappropriato, sottoponendo cuore e vasi a un lavoro molto maggiore di quello fisiologico normale. Ne consegue, con il tempo, il deterioramento dei cosiddetti organi bersaglio: reni, cervello, ecc., sia per quel che riguarda la funzione sia l’anatomia. L’IA è l’aumento della pressione oltre i 135/85 mmHg, fino a valori anche molto più elevati.
Si hanno vari livelli di ipertensione: da ipertensione borderline, a lieve, moderata, severa, fino all’ipertensione maligna. Nell’IA esiste una predisposizione genetica, ma al suo sviluppo possono concorrere numerosi fattori fisici e ambientali. Significa che se uno o entrambi i genitori sono ipertesi i figli hanno alte probabilità di sviluppare l’ipertensione. E maggiore e più precoce può essere lo sviluppo della malattia e le sue complicanze quanti più fattori di rischio ha il paziente. In questo caso è indispensabile conservare entro i limiti della norma gli altri fattori di rischio noti e controllabili.

L’incidenza dell’IA è statisticamente in continuo aumento negli ultimi 20 anni nel mondo occidentale, come a loro volta sono in aumento le sue complicanze: infarto e ictus. La comunità scientifica, intesa come ricerca medica e come aziende farmaceutiche, è intensamente attiva nella ricerca delle cause dell’IA e nell’individuazione di terapie sempre più precise e con minori effetti collaterali.
Nell’ultimo congresso italiano sull’IA è emerso un dato nuovo di estrema importanza sia scientifica sia pratica: alla base di tutta la terapia antiipertensiva c’è la sana igiene di vita. Questa dovrebbe essere in realtà la base di tutta la moderna medicina per tutte le malattie: la prescrizione di qualunque terapia farmacologica deve essere preceduta e affiancata dalla correzione degli errori nelle norme igieniche di vita.
Nella società moderna occidentale c’è la tendenza alla vita sedentaria, all’alimentazione abbondante con conseguente aumento del peso corporeo, all’assunzione di sale in eccesso (sopratutto nei cibi preconfezionati), al consumo di caffè, a uno stress cronico che induce una produzione abbondante di adrenalina.

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Il raggiungimento di questi obiettivi equivale alla somministrazione di un farmaco antiipertensivo: come se il pz assumesse già una terapia.
Equivale a dire che in un pz borderline o affetto da ipertensione di grado lieve il raggiungimento di questi obiettivi può far scendere la pressione tanto da permettere la sospensione, almeno temporanea, della terapia, mentre in un pz in politerapia può significare la riduzione della quantità di pillole.
Alcuni pz sono spaventati dal luogo comune che una volta iniziata l’assunzione della terapia antiipertensiva, questa dovrà essere continuata per tutta la vita: non è così. Se messe in azione queste norme igieniche possono ridurre la pressione arteriosa e controllare eventuali patologie associate fino alla possibile riduzione del rischio cv e la possibile sospensione della terapia farmacologica.
Le statistiche hanno evidenziato che un soggetto con un fattore di rischio ha scarse probabilità di andare incontro ad eventi cv maggiori, ma aumentando il numero di fattori, la probabilità di andare incontro a infarto miocardico o ictus aumenta in modo consistente. (V. anche la “Carta del Rischio cardiovascolare” nella pagina a fianco.)
Nel 48% dei casi in Italia i pazienti ipertesi non raggiungono un sufficiente abbassamento della pressione arteriosa: non si ottengono cioè con la terapia i valori pressori raccomandati dalle linee guida della società europea dell’ipertensione, fino a una vera riduzione del rischio CV. Questo può accadere per molti motivi: scarsa aderenza alla terapia da parte del pz, dimenticanze nell’assunzione dei farmaci, rari controlli medici, ecc.
Sia nell’uomo che nella donna la percentuale di insufficiente controllo risulta sovrapponibile e questo dato, anche se analizzato per tutte le regioni italiane, cresce ulteriormente nel resto della popolazione europea.

NORME IGIENICHE DI VITA (poche, chiare e fondamentali)

CALO PONDERALE
La riduzione di peso comporta la riduzione della quantità di tessuto adiposo, che contrariamente a quanto si credeva in passato, non è un tessuto inerte, ma è pari a un organo, metabolicamente attivo, sede di deposito e di scambi di sostanze che nella fattispecie hanno profonde implicazioni nella regolazione della pressione arteriosa. Inoltre il lavoro a cui viene sottoposto il cuore per l’irrorazione di una massa corporea maggiore è più elevato di quello fisiologico normale. A questo aggiungiamo che negli obesi il tessuto adiposo non è solo sottocutaneo e non si riduce ad un fatto estetico: depositi adiposi si ritrovano in tutto il corpo, compreso intorno al cuore.

tabella

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SPORT
Lo sport non fa perdere peso ma aiuta a mantenere una corretta igiene alimentare. L’attività muscolare comporta l’attivazione di vie metaboliche diverse da quelle adottate in una vita sedentaria con la mobilizzazione e la produzione di sostanze che dilatano i piccoli vasi, stimolano l’attività cardiaca e la produzione di nuovi vasi coronarici, bruciano il colesterolo in eccesso nel sangue. Inoltre aiuta la propriocezione e motiva a mantenere una dieta più equilibrata. Questo comporta oltre che un minor rischio cv in generale, una funzione cardiaca migliore, la riduzione di adrenalina disponibile, e altri benefici.

RIDURRE L’ASSUNZIONE DI SALE

Il sodio è già contenuto nei cibi freschi. L’aggiunta di sale come cloruro di sodio durante la preparazione dei cibi o il consumo di alimenti precotti che ne contengono molto comporta l’assunzione di un eccesso di sale. Questo sovraccarica il lavoro dei reni, dando false informazioni ai sensori che attraverso vari meccanismi fanno alzare la pressione. Inoltre l’eccesso di sale nel sangue comporta anche l’eccesso nella saliva con una minor percezione dei sapori e la susseguente aggiunta di ulteriore sale. La progressiva riduzione del consumo e l’eliminazione del suo eccesso nel corpo, nel sangue e nella saliva, porta al recupero dei sapori originali dei cibi. Per quantificare uno studio recente ha dimostrato che la riduzione di 1 grammo di sale comporta in media un calo di 7 mmHg di pressione.

RIDURRE L’ASSUNZIONE DI CAFFÈ
Il caffè è un potente stimolatore del sistema nervoso, non solo centrale, ma anche delle terminazioni periferiche. Esso stimola il metabolismo, il livello di allerta neurologico e altre funzioni. A livello cardiaco aumenta la frequenza e la pressione arteriosa. Il decaffeinato visto spesso come un escamotage, ha gli stessi effetti sul sistema CV; oltre alla molecola usata per spostare la caffeina, esistono molte altre sostanze attive in una tazzina di caffè. Un caffè al giorno può essere benefico; di più può essere un vero tossico.

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LA PRO-CALCITONINA: SUO IMPIEGO PER LA DIAGNOSI DELLE INFEZIONI E DELLE SEPSI BATTERICHE E COME AUSILIO-GUIDA PER LA TERAPIA ANTIBIOTICA

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Nonostante i continui miglioramenti nel trattamento terapeutico di pazienti critici con serie patologie infettive, la sepsi è ancora la causa principale del decesso. Una diagnosi precoce di sepsi è pertanto fondamentale perché una terapia rapida e appropriata possa essere associata a un esito favorevole. Necessitano quindi indagini che facilitino questa diagnosi e permettano di monitorarne il decorso. Diversi biomarker (cioè molecole biologiche caratteristiche di processi patologici che possano essere facilmente e obiettivamente misurati) sono stati proposti per un loro possibile impiego nella diagnosi della sepsi e come guida nei comportamenti terapeutici e nelle valutazioni prognostiche.
Tra i biomarker più utili a tal fine assumono particolare rilievo le cosiddette proteine della fase acuta (PFA) che vengono prodotte dal fegato in notevole quantità quando s’instaura un’infiammazione.
Tra le PFA un ruolo decisivo spetta sicuramente alla Pro-calcitonina (PCT). Si tratta di un precursore della calcitonina, ormone normalmente coinvolto nell’omeostasi del calcio e prodotto a livello delle cellule C della tiroide e delle cellule neuroendocrine dei polmoni e dell’intestino. In condizioni fisiologiche il livello di pro-calcitonina nel flusso sanguigno è molto basso, rimane in genere sotto il limite di rilevabilità dei test clinici, comunque minore di 0.05 ng/mL; esso invece si eleva fortemente negli stati infiammatori, soprattutto in quelli indotti da infezioni batteriche.

Ma per comprendere il vero valore e le possibilità di utilizzazione del dosaggio della pro-calcitonina nella valutazione delle sepsi batteriche e del loro trattamento antibiotico, dobbiamo prima conoscere quanto segue.
Una malattia infettiva insorge quando microbi patogeni virulenti (virus, batteri, miceti, protozoi) riescono a penetrare in un organismo determinando un’infezione, alla quale l’ospite reagisce attivando una risposta difensiva chiamata infiammazione o flogosi. L’infiammazione consiste in una sequenza dinamica di fenomeni reattivi, che presentano caratteristiche relativamente costanti, nonostante l’infinita varietà di agenti lesivi che li possono provocare, in quanto sono determinati soprattutto dalla liberazione da parte dell’organismo di sostanze endogene (citochine) che rappresentano i mediatori chimici della flogosi. Le citochine costituiscono le molecole impiegate per effettuare ogni comunicazione tra le cellule di un organismo, legandosi a specifici recettori sulla membrana cellulare dei loro target.

I recettori TLR (Toll-like receptors) presenti sulla superficie dei Monociti-Macrofagi (cellule difensive poste nei punti strategici del nostro organismo) segnalano l’invasione dei microbi patogeni e, producendo un elevato numero di citochine (come Interleukina IL-1, IL-6, IL-8, TNF, ecc.), scatenano l’infiammazione, che, tra l’altro, permette ai leucociti (soprattutto ai granulociti neutrofili) di giungere nella sede del danno e, quindi, di fagocitare agenti lesivi, uccidere batteri e degradare il tessuto necrotico.
Quasi contemporaneamente all’imponente attività fagocitante dei macrofagi e dei granulociti viene messa in moto la risposta immunitaria cosiddetta cellulo-mediata, in quanto le cellule della difesa innata, mentre continuano a lottare contro l’invasore microbico, mandano segnali che attivano gli specifici linfociti, chiamati TCD4 (che poi scateneranno la reazione da parte degli anticorpi e dei linfociti citotossici).
Se le risposte difensive immunitarie riescono a bloccare e far regredire il processo infettivo, si assiste alla guarigione e alla progressiva restitutio ad integrum dei tessuti lesi. Se, invece, l’infezione persiste e si aggrava, il quadro può evolvere verso la cosiddetta SIRS (sindrome da risposta infiammatoria sistemica) dovuta alla tempesta citochinica che continua, prendendo il nome di SEPSI, quando causata da infezione. Persistendo la malattia, s’instaura la cosiddetta MODS (sindrome da disfunzione organica multipla) che, spesso con uno shock settico, porta a morte il paziente.
Lo schema seguente riassume in parte quanto detto.

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Avendo ben note queste modalità di infezione da parte dei microbi patogeni e di reazione infiammatoria da parte del nostro sistema immunitario, di fronte a un caso di sospetto processo infettivo, è necessario determinare, nel modo più ampio e rapido possibile, la diagnosi clinica della malattia, con un’attenta e ampia indagine epidemiologica e un completo esame obiettivo del malato.
Posta la diagnosi clinica, è poi necessario, per poter attuare la terapia etiologica più corretta, individuare quale sia o possa essere l’agente patogeno causale e, nel contempo, valutare la gravità della malattia. In attesa di conoscere l’esito delle indagini colturali sul materiale biologico prelevato dal paziente (emocolture, urinocolture, ecc.), da mettere sempre in moto prima di iniziare qualsiasi trattamento chemio-antibiotico, si studiano le più significative ricerche di laboratorio, specie quelle rivolte ad accertare le caratteristiche della risposta infiammatoria indotta dal processo infettivo, che possono fornire elementi preziosi anche per la diagnosi etiologica. Si procede subito alla conta dei globuli bianchi, che variano spesso in modo diverso a seconda del gruppo microbico cui appartiene l’agente infettante (leucocitosi neutrofila nella maggior parte delle infezioni batteriche, leucocitopenìa in altre, linfocitosi in molte virosi, ecc.); sempre utilizzata è la misurazione della VES, velocità di sedimentazione dei globuli rossi. Se nel sangue la presenza di globuline o di fibrinogeno è molto alta, come in corso di una reazione infiammatoria, la VES aumenta. Ma, poiché sono molti i processi fisiologici e patologici che possono determinare questo aumento, l’esame deve essere considerato utile ma estremamente aspecifico.
Quando l’infiammazione è particolarmente intensa si producono poi, come già accennato, le cosiddette PFA (proteine della fase acuta) prodotte dal fegato sotto l’induzione delle citochine infiammatorie. Il dosaggio di queste proteine, pur prive di specificità diagnostica, è molto utile perché esse indicano la presenza, l’intensità e la durata dei processi infiammatori.

Le due PFA più usate nella diagnostica infettivologica sono la Proteina C Reattiva (PCR) e la Pro-calcitonina (PCT).

Proteina C reattiva (PCR)
È una delle più tipiche proteine di fase acuta e il primo mediatore della immunità innata a essere riconosciuto. L’innalzamento della PCR è conseguenza della sua maggiore sintesi da parte del fegato sotto lo stimolo della citochina IL-6 (Interleuchina 6), prodotta principalmente dai macrofagi. Ma i livelli della PCR aumentano significativamente in risposta ad una grande varietà di situazioni; tra cui, oltre che nelle infezioni di origine batterica, anche in quelle virali e in corso di infarto miocardico, neoplasie maligne, ecc. Essa quindi indica che l’organismo è sottoposto ad uno stress infiammatorio considerevole, ma non fornisce informazioni sull’origine del processo patologico.

PRO-CALCITONINA (PCT)
Come abbiamo detto, la pro-calcitonina fisiologicamente è un precursore dell’ormone calcitonina, prodotto soprattutto da cellule tiroidee; il suo livello ematico rimane in genere sotto il limite di rilevabilità dei test clinici.
Ma, in corso di una risposta infiammatoria sistemica, la PCT, prodotta soprattutto da cellule connesse col sistema immunitario in risposta all’invasione di endotossine batteriche, tramite lo stimolo sul fegato da parte delle citochine infiammatorie (IL-1β, TNF-a, IL-6), si eleva in circolo e i suoi valori ematici possono in questo caso raggiungere concentrazioni anche superiori a 100 ng/mL. In patologia sperimentale, somministrando endotossina batterica, dopo circa 3 ore si assiste all’aumento della PCT con picco intorno alle 12 ore, ed emivita di 24 ore. La PCT va quindi considerata la proteina della fase acuta che si eleva soprattutto negli stati infettivi di origine batterica, specie in quelli con manifestazioni sistemiche (SIRS-Sepsi), ove può raggiungere i valori più elevati. Esiste una correlazione diretta tra il grado di positività della PCT e la gravità del processo infettivo; i suoi livelli ematici possono addirittura fornire elementi prognostici sull’evoluzione della malattia. In condizioni settiche, l’aumento dei valori di PCT può essere osservato già dopo 3-6 ore dall’inizio della infezione, valori che, in presenza di sepsi, sono generalmente superiori a 0.5-2.0 ng/mL, e spesso fino a 10-100 ng/mL.

Nelle infezioni virali il livello della pro-calcitonina può aumentare, ma leggermente (spesso non supera 1 ng/mL), anche perché lo stimolo citochinico per la sua produzione risulta attenuato dalla produzione dell’Interferon (INF-g), citochina prodotta proprio nelle patologie virali.
Come abbiamo già detto, la PCT, come qualsiasi altra PFA, può elevarsi anche in infiammazioni non infettive, ad esempio dopo gravi traumi, ustioni, interventi chirurgici, dopo shock cardiogeno, in soggetti con neoplasia polmonare a piccole cellule o tiroidea da cellule C e nei neonati nei primi 2-3 giorni di vita.
È per questo che il riscontro della PCT va valutato solo dopo aver diagnosticato nel paziente la presenza di una malattia infettiva; in tali casi rilevare alti livelli di pro-calcitonina, specie se in soggetti con sospetta sepsi, è un elemento importante per confermare l’etiologia batterica, valutare la gravità del processo morboso e decidere il miglior comportamento terapeutico. Le concentrazioni sieriche della PCT continuano a crescere con l’aggravarsi del quadro settico; comunque la risposta è legata anche alla capacità di reazione del nostro sistema immunitario e allo stato del paziente. Il medico deve sempre saper valutare i risultati della PCT in associazione con la valutazione clinica generale e con tutti gli altri dati di laboratorio (“PCT levels must always be evaluated in the context of a careful clinical and microbiological assessment”, Schuetz P. et al., BMC Medicine 2011, 9:107).
In basso in questa pagina riferiamo un interessante algoritmo, edito dalla Biomerieux, riferito alla possibilità di diagnosi delle sepsi.
Pertanto, la PCT, con lo studio delle variazioni giornaliere dei suoi livelli sierici, si è dimostrata utile per monitorare il decorso e la prognosi dell’infezione batterica sistemica e per adeguare in maniera più efficace l’intervento terapeutico. La pro-calcitonina infatti ha un’emivita inferiore a 24 ore; e pertanto i suoi livelli sierici, man mano che si risolve la sepsi, diminuiscono giornalmente e si dimezzano fino a tornare ai valori normali (inferiori a 0.5 ng/mL); viceversa, livelli persistentemente elevati si associano spesso a prognosi sfavorevole e possono essere interpretati come fallimento della terapia.

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Sono stati fatti studi controllati per valutare se il dosaggio della PCT possa risultare utile per la decisione di quando iniziare e di quanti giorni continuare la terapia antibiotica; e ciò al fine di impiegare questi farmaci nel modo più corretto possibile, specie in relazione al loro usuale abuso e agli effetti negativi sull’insorgenza delle resistenze batteriche. Si può perfino decidere per un minor tempo di degenza in reparto, con ulteriore diminuzione dei relativi costi.
Un algoritmo decisionale in tal senso, basato sul monitoraggio della PCT e sul decorso clinico, è stato utilizzato nelle polmoniti comunitarie permettendo di personalizzare la durata della terapia per ciascun paziente; si è ottenuto un risparmio di antibioticoterapia (sia in senso economico che ai fini della resistenza) e una riduzione delle giornate di degenza (da una media di 12 a una di 6 giorni), con risultati di guarigione sovrapponibili a quelli osservati nei soggetti trattati per 10-14 giorni.
Riferiamo come esempio un algoritmo suggerito per iniziare o no il trattamento antibiotico nelle infezioni delle vie respiratorie, tenendo sempre ben presente che queste vengono usualmente trattate con farmaci antibatterici, pur essendo in gran parte di etiologia virale.

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NOTE CONCLUSIVE

La pro-calcitonina mostra livelli sierici che aumentano circa 3 ore dopo l’inizio dell’infezione batterica e raggiungono i valori più elevati dopo circa 6-12 ore; la sua emivita è inferiore alle 24 ore; per monitorare il paziente si ritiene che occorra una frequenza dei dosaggi della proteina almeno una volta al giorno, senza rapporto con i ritmi circadiani.
La PCT è stabile in vitro; lasciando il campione a temperatura ambiente, si può osservare un decadimento minimo (non più del 2%) dopo 2 ore e non più del 10 % durante le prime 24 ore.
Durante il monitoraggio del processo infettivo in corso di terapia antibiotica, si può valutare la PCT nel modo seguente:
–     una riduzione giornaliera di circa il 50% della sua concentrazione rispetto a quella del giorno precedente (specie se confermata per altri 2 o 3 giorni consecutivi) può essere valutata come il probabile successo dell’intervento terapeutico;
–     invece, livelli che si mantengono elevati o che addirittura aumentano, suggeriscono che il processo non è stato influenzato dalla terapia, che ovviamente dovrebbe essere modificata.
Lo studio della PCT può essere utilizzato anche in corso di gravi patologie non infettive (pazienti politraumatizzati o sottoposti a estesi interventi chirurgici) per poter rilevare se e quando compaia un processo infettivo; in questi casi è utile dosare subito la PCT, che può rivelarsi aumentata per la patologia di base, considerare il risultato come “valore basale” del paziente e poi verificare la PCT nei giorni successivi:
–     se essa si riduce giornalmente di circa il 50% di questo valore, si può considerare che non esistono complicanze infettive;

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–     se, invece, il livello della PCT si mantiene costante o addirittura aumenta nei giorni successivi, si deve prendere in considerazione la possibilità di complicanze settiche.
Il dosaggio della PCT viene utilizzato quindi per decidere l’inizio e la sospensione della terapia antibiotica tramite l’utilizzo di algoritmi che in funzione della concentrazione sierica di PCT, incoraggiano o meno la somministrazione degli antibiotici o viceversa ne suggeriscono l’interruzione, come nello schema riassuntivo qui sopra.

Pertanto, l’impiego della pro-calcitonina che aiuta a comprendere l’andamento delle infezioni batteriche e la loro gravità, utilizzato per meglio coordinare l’impiego della terapia antimicrobica, costituisce sicuramente un valido approccio a un più razionale uso degli antibiotici (v. Schuetz P. et al., BMC Medicine 2011, 9:107).


MORBO DI PAGET OSSEO E ARTRITE REUMATOIDE A ESORDIO TARDIVO

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Il morbo di Paget osseo è un’affezione caratterizzata da un rimaneggiamento osseo localizzato, per un’accentuazione del riassorbimento osseo osteoclastico e secondaria neofarmazione ossea compensativa. I siti scheletrici colpiti da questa affezione hanno una struttura ossea disorganizzata, con deformità ossea e facilità alle fratture patologiche (tab. 1). Sono segnalate come possibili associazioni morbose anche l’artrite reumatoide, la condrocalcinosi, la spondilopatia iperostosante (1). Broggini e coll. (2) hanno descritto in passato un caso di m.di Paget osseo associato ad artrite reumatoide sieropositiva, ad esordio tardivo, e gammapatia monoclonale di incerto significato (MGUS).

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Descriviamo in questa sede il caso di un uomo di 63 anni, affetto da m.bo di Paget osseo sin dall’età di 46 anni. Da circa un anno tumefazione dolorosa e impotenza funzionale a carico dei polsi, articolazioni metacarpofalangee di entrambe le mani, caviglie, con rigidità mattutina. Il laboratorio conferma la diagnosi di artrite reumatoide. L’indagine radiografica delle mani e dei polsi (fig. 1, 2) mostra osteoporosi diffusa delle ossa del carpo e della epifisi distale del radio e ulna bilateralmente, riduzione della rima radiocarpica, anchilosi di alcune ossa del carpo, osteoporosi “a banda” delle metacarpofalangee, areole di osteolisi a carico della testa del II e III metacarpo bilateralmente e della base della falange prossimale del II dito di sinistra.

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L’indagine radiografica del bacino (fig. 3) mostra un rimaneggiamento osseo della branca ischiopubica di sinistra con compromissione del tetto dell’acetabolo omolaterale. L’indagine radiografica delle ginocchia (fig. 4 e 5) mostra un rimaneggiamento osseo, con alternanza di zone di addensamento osteosclerotico e di rarefazione ossea a carico dell’epifisi tibiale destra.
Gli indici biochimici del turnover osseo sono caratterizzati da valori normali di calcemia, calciuria, fosfatemia, fosfaturia. L’idrossiprolinuria è lievemente aumentata, mentre i valori della fosfatasi alcalina sierica o osteocalcina sierica sono superiori alla norma. L’indagine scintigrafica mediante 99mTc metildifosfonato evidenziava una ipercaptazione del tracciante a livello dell’emibacino di sinistra ed epifisi prossimale della tibia destra.
Si può concludere sottolineando il fatto che il caso rappresentato, in analogia a quanto descritto da altri autori (2), è affetto da un’artrite reumatoide a insorgenza tardiva in comorbilità con un pregresso m.bo di Paget osseo.
Ricorre nella storia del nostro malato la presenza di urolitiasi, complicanza ampiamente segnalata nel m.bo di Paget (3).
L’associazione dell’artrite reumatoide con il m.bo di Paget osseo non sembra influenzare nel nostro caso i valori dei parametri biochimici testati, nel senso dei valori più bassi di osteocalcina sierica, a causa della sieropositività ad elevato titolo del fattore reumatoide (reaz. di Waaler Rose 1:2560) e della terapia cortisonica effettuata, e valori più elevati di idrossiprolinuria e fosfatasi alcalina sierica, rispettivamente per la collagenolisi e l’osteoporosi sistemica legate all’artrite reumatoide.
Le considerazioni suddette trovano giustificazione nella segnalazione di possibili valori di fosfatasi alcalina sierica e idrossiprolinuria elevati in corso di artrite reumatoide e nella possibilità che l’osteocalcina sierica possa essere influenzata non solo dall’alterato ricambio minerale, dalla terapia steroidea ma anche da meccanismi immunologici che caratterizzano la particolare severità dell’artrite reumatoide (alterato rapporto dei linfociti CD4/CD8, FR ad alto titolo, impegno extrarticolare) (4).

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FROM BENCH TO BEDSIDE
I BENEFICI CLINICI DELLA RICERCA: SELEZIONE DALLA LETTERATURA SCIENTIFICA

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Cellule staminali in grado di riparare il cuore dopo l’infarto
Bolli R., Chugh A.R., D’Amario D., et al., Cardiac stem cells in patients with ischaemic cardiomyopathy (SCIPIO): initial results of a randomised phase 1 trial. The Lancet. 2011 Nov 26; 378 (9806): 1847-57.
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0140673611615900

Uno studio condotto da due ricercatori italiani il prof. Roberto Bolli dell’Università di Louisville e il prof. Piero Anversa della Harvard Medical School di Boston, pubblicato nell’importante rivista internazionale The Lancet, mostra che una terapia a base di staminali può aiutare un cuore danneggiato da infarto ad autoripararsi, migliorandone la funzionalità. Lo studio clinico è stato battezzato “Scipio”, acronimo di Cardiac Stem Cells in Patients with Ischemic Cardiomyopathy e sono state condotte sperimentazioni cliniche su 23 pazienti con insufficienza cardiaca da infarto. Gli scienziati hanno prelevato staminali adulte dal cuore di 16 di questi pazienti, le hanno purificate nel laboratorio di Anversa a Boston e poi fatte crescere moltiplicandole. Queste cellule sono state poi reiniettate nelle aree danneggiate del cuore dei pazienti, via infusione intracoronarica, attraverso un catetere, sottoponendo così i pazienti ad un autotrapianto.
Osservando coloro che erano stati sottoposti al trattamento, e confrontando il loro stato di salute con i sette che non avevano ricevuto la terapia, i ricercatori hanno osservato che nei mesi successivi la superficie di tessuto necrotico danneggiata dall’infarto si era ridotta e, parallelamente, era diminuita l’insufficienza cardiaca.

La capacità di pompare sangue era migliorata per tutti i pazienti trattati dell’8,5%, dopo solo 4 mesi e del 12% a 12 mesi dal trattamento.
Il tentativo di usare le staminali per “riparare” il cuore era stato già fatto in passato, ma erano state utilizzate cellule estratte dal midollo osseo.
I due ricercatori hanno invece avuto l’intuizione di utilizzare le stesse staminali adulte del cuore, prelevandole dalla zona atriale.
“Questi risultati iniziali nei pazienti sono davvero incoraggianti”, hanno scritto i professori Bolli ed Anversa su The Lancet, “e suggeriscono che l’infusione di cellule staminali cardiache autologhe (cioè del paziente stesso) è efficace nel migliorare la funzione cardiaca e nel ridurre le dimensioni dell’area cardiaca infartuata”.

Sesso del nascituro grazie ad un esame del sangue già nelle prime settimane di gestazione
Lim J.H., Park S.Y., Kim S.Y. et al. Effective detection of fetal sex using circulating fetal DNA in first-trimester maternal plasma. FASEB J. 2012 Jan; 26 (1): 250-8.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed?term=DYS14%2FGAPDH

Un gruppo di ricercatori coreani ha messo a punto un test, unico nel suo genere, capace di individuare il sesso del neonato già poche settimane dopo il concepimento, attraverso un semplice prelievo del sangue della madre senza ricorrere ad esami invasivi. Gli esami disponibili ad oggi per identificare il sesso del nascituro, e non solo, sono l’amniocentesi e l’analisi dei villi coriali, entrambe procedure invasive che non possono essere eseguite prima di dieci settimane di gestazione e che comportano un rischio, seppur basso, di aborto spontaneo. A questi test si aggiunge la nota ecografia con la quale per vedere il sesso del bambino occorre attendere oltre il primo trimestre di gravidanza.

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Per i genitori, invece, potrebbe essere presto disponibile il test realizzato da ricercatori coreani dell’Università di KwanDong, a Seoul, analizzando il rapporto tra due particolari enzimi, denominati DYS14 e GAPDH, nel sangue della futura mamma. La ricerca, che è stata pubblicata sulla rivista FASEB Journal, oltre alla comodità per tutti genitori curiosi, potrà avere anche un utile impiego nella ricerca delle malattie genetiche legate alle anomalie cromosomiche, che potranno essere individuate molto più velocemente. Nel plasma materno infatti è presente DNA fetale e a seconda delle quantità di questi 2 enzimi gli studiosi coreani sono stati capaci di prevedere il sesso del nascituro in 203 donne incinte arruolate nello studio.

Diagnosi precoce dell’Alzheimer: presto un esame del sangue e/o la possibilità di identificare i primi sintomi della malattia attraverso una scansione della retina dell’occhio
http://www.webmd.com/alzheimers/news/20110721/study-blood-test-detects-early-alzheimers
http://www.alz.org/aaic/sunday_12amCT_news_release_falls.asp
http://www.medscape.com/viewarticle/746489

Grazie ad un semplice test del sangue, messo a punto da alcuni ricercatori australiani del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization di Perth, sarà possibile fare una precoce diagnosi del Morbo di Alzheimer, una malattia neurodegenerativa per la quale attualmente non esiste una cura e per la quale è dunque molto importante effettuare una diagnosi precoce, per riuscire a garantire una vita migliore e più lunga a chi ne viene colpito.

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Nei test preliminari, guidati dalla dottoressa Samantha Burnham, lo strumento di screening sperimentale ha avuto l’85% di efficacia nel determinare la quantità di placche associate all’Alzheimer nel cervello delle persone analizzate.
Se i risultati raggiunti, presentati in occasione della Conferenza dell’Alzheimer’s Association International tenutasi a Parigi nel luglio del 2011, potranno essere replicati su un gran numero di persone, si avrà a disposizione uno strumento di diagnosi poco invasivo ed economico per capire se un soggetto si trovi nelle fasi iniziali, o corra il rischio di sviluppare l’Alzheimer. Inoltre, lo stesso gruppo di ricerca ha presentato i risultati di un ulteriore studio nel quale si è potuto vedere che è possibile identificare i primi sintomi della malattia attraverso una scansione della retina dell’occhio.
Gli studiosi hanno condotto i test su 126 soggetti evidenziando come, in quelli colpiti da Alzheimer, lo spessore dei vasi sanguigni della retina era totalmente diverso da quello delle persone sane. Ciò ha portato il team di ricerca a concludere che significative differenze nella struttura dell’occhio sarebbero presenti nella fase iniziale della patologia e dunque dalla loro individuazione sarebbe possibile intraprendere terapie specifiche, sin dalla comparsa dei primi deficit neurologici, come la perdita della memoria.

Sclerosi multipla diagnosticata da una semplice analisi del sangue
Menon R., Di Dario M., Cordiglieri C. et al. Gender-based blood transcriptomes and interactomes in multiple sclerosis: Involvement of SP1 dependent gene transcription. J Autoimmun. 2011 Nov 24.
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S089684111100117X

La sclerosi multipla (SM), chiamata anche sclerosi a placche, è una malattia autoimmune cronica demielinizzante, che colpisce il sistema nervoso centrale. Il futuro, per una diagnosi precoce della malattia, potrebbe essere un semplice esame del sangue. Un team di ricercatori italiani dell’Istituto San Raffaele guidati dalla dottoressa Cinthia Farina ha individuato, grazie alla “medicina di genere” alcuni biomarcatori specifici della malattia.
La ricerca è stata pubblicata su Journal of Autoimmunity e nello studio sono stati valutati più di 20.000 geni nel sangue di pazienti con SM e i profili sono stati paragonati a quelli di donatori sani, tenendo conto anche del sesso (maschile o femminile) del malato. Risultato: la malattia è caratterizzata da cambiamenti significativi sia nella quantità che nel tipo di geni che sono diversamente espressi nel sangue degli uomini e delle donne. Non solo, sono state identificate delle “firme molecolari” associate alla patologia diverse negli uomini e donne con SM.
“È un lavoro di medicina traslazionale molto innovativo – spiega Cinthia Farina, responsabile del laboratorio di Immunobiologia delle Malattie Neurologiche presso l’Istituto di Neurologia Sperimentale INSpe del San Raffaele – poiché per la prima volta è stato usato, nell’analisi di genomica funzionale, un approccio di “medicina di genere”. Questo ci ha consentito di ottenere marcatori in grado di distinguere in maniera molto precisa i malati dalla popolazione sana.” In altre parole, “andando avanti nella ricerca sarà possibile, un domani, capire da un prelievo di sangue se una persona è affetta da SM oppure no”.

Staminali per produrre sperma
Abu Elhija M., Lunenfeld E., Schlatt S., Huleihel M. Differentiation of murine male germ cells to spermatozoa in a soft agar culture system. Asian J Androl. 2011 Nov 7.
http://www.nature.com/aja/journal/vaop/ncurrent/pdf/aja2011112a.pdf

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I ricercatori dell’Università tedesca di Muenster sono riusciti a creare in laboratorio spermatozoi, grazie all’utilizzo delle cellule germinali: le staminali che danno luogo ai gameti femminili e maschili, ovuli e spermatozoi, aprendo così la strada a una nuova terapia contro l’infertilità maschile.
Come riportato dal quotidiano britannico The Daily Telegraph, l’esperimento è stato finora condotto sui topi: alcune staminali estratte dai testicoli e immerse in un speciale agar di coltura hanno dato luogo a spermatozoi vitali e senza alcun danno dal punto di vista genetico. Se questa tecnica fosse applicabile anche all’uomo permetterebbe di ricavare sperma anche da persone non fertili, eliminando quindi la necessità di un donatore. Al momento tuttavia tentativi in questo senso non hanno ancora dato esito positivo: “Abbiano già applicato gli stessi metodi utilizzando cellule umane, finora senza successo: tuttavia, siamo fiduciosi nel fatto che se la tecnica funziona con un mammifero come il topo, può farlo anche nell’uomo” ha spiegato uno dei ricercatori, dr. Mahmoud Huleihel, sottolineando che la difficoltà principale sta nel trovare la “soluzione di coltura” adatta nella quale far sviluppare le cellule germinali.

Staminali mesenchimali per trasportare farmaci
Pessina A., Bonomi A., Coccè V. et al. Mesenchymal stromal cells primed with Paclitaxel provide a new approach for cancer therapy. PLoS One 2011; 6(12): e28321.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3243689/pdf/pone.0028321.pdf

Uno studio dell’Università Statale di Milano e dell’Istituto Neurologico Carlo Besta, pubblicato sulla rivista PLoS One mette in evidenza che cellule staminali mesenchimali si possono trasformare in “veicoli” per trasportare i farmaci a destinazione. È il futuro della chemioterapia. I ricercatori aprono la strada ad un nuovo possible utilizzo delle staminali: quella di cellule-farmaco. Lo studio firmato dal dr. Augusto Pessina, del Dipartimento di Sanità Pubblica, Microbiologia, Virologia della Statale, in collaborazione con il dr. Giulio Alessandri, del Laboratorio di Neurobiologia del Besta e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha dimostrato per la prima volta che “cellule mesenchimali umane, isolate dal midollo osseo, possono essere “caricate in vitro” con farmaci chemioterapici e successivamente utilizzate con efficacia per il trattamento dei tumori”, spiegano gli autori.

La strategia potrebbe essere alla base di “nuove forme di chemioterapia”, assicurano gli esperti. Le cellule staminali verrebbero usate come un inedito dispositivo-farmaco, semplice e a basso costo, per cure sempre più mirate e in grado di diminuire o eliminare alcuni effetti collaterali. “Il dispositivo – spiegano gli autori – può essere preparato mediante semplici e poco costose procedure, che non comportano manipolazioni genetiche e quindi ne evitano tutti i rischi correlati”.
“Il dispositivo – sostiene Alessandri – mantiene la sua funzionalità terapeutica anche dopo congelamento in azoto liquido, aprendo così la strada alla possibilità di conservazione di queste cellule, che potrebbero essere utilizzate, nello stesso paziente donatore, anche tempo dopo la loro preparazione, per esempio in caso di recidive”.

La possibilità di usare cellule dello stesso paziente (trattamento autologo) ottenute da midollo osseo, tessuto adiposo e altri tessuti, aggiunge Pessina, “elimina il rischio immunologico e riduce anche il rischio di trasmissione di agenti patogeni. La dimostrazione sperimentale dell’efficacia del metodo è stata eseguita su tumori, ma l’applicazione potrà riguardare anche altre patologie ove sia richiesto un potenziamento sia della specificità che della attività terapeutica”.
“La caratteristica biologica che permette di essere caricate con farmaci – continuano gli autori dello studio – sembra essere condivisa anche da altre popolazioni cellulari, come fibroblasti, cellule dendritiche, monociti e macrofagi, che sono presenti nel sangue e quindi facilmente isolabili dai pazienti”. “Che le staminali mesenchimali – commenta il dr. Eugenio Parati, Direttore del Laboratorio di Neurobiologia del Besta di Milano – possano rigenerare e riparare tessuti danneggiati era già stato dimostrato. Con questa nuova scoperta viene dimostrato che le stesse cellule possono essere utilizzate come “veicoli” per trasportare farmaci che, raggiungendo in modo mirato le cellule dell’organo malato, avranno una maggiore capacità terapeutica”.