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DB-04-2012

Diagnostica Bios 04-2012

SOMMARIO

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L’EDITORIALE
Giuseppe Luzi

DISFUNZIONE ERETTILE E TERAPIA DI PRIMO LIVELLO
Gianrico Progiotti

L’ATTIVITÅ FISICA QUALE PREVENZIONE E CURA DELL’OSTEOPOROSI
Marta Delli Falconi

FATTORI DI RISCHIO ASSOCIATI ALL’IPERTENSIONE:STRATEGIE DI TRATTAMENTO
Massimiliano Rocchietti March

MIXING
Alessandro Ciammaichella

A TUTTO CAMPO
Lelio Zorzin – Silvana Francipane

TERAPIA ANTIBIOTICA RAGIONATA
Augusto Vellucci

LA FORMULA LEUCOCITARIA
Giuseppe Luzi

UN CASO CLINICO: SINDROME PARANEOPLASTICA?
Alessandro Ciammaichella

UNA DIAGNOSI AD ALTA TECNOLOGIA PER LE ALLERGIE PIU’ COMUNI
Giuseppe Luzi – Paolo Macca



IL RUOLO DELLA PREVENZIONE “SECONDARIA” IN DIFESA DELLA SALUTE:
IL FUTURO “MOLECOLARE” DEI CHECK-UP


Gli studenti di Medicina, quando affrontano le basi essenziali nello studio dell’epidemiologia delle malattie cronico-degenerative e dell’infettivologia acquisiscono rapidamente i tre concetti fondamentali sul ruolo della prevenzione: prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Questi termini si riferiscono all’immediata identificazione delle modalità di intervento che possono essere attivate per migliorare la qualità della vita e fornire alle strutture sanitarie un adeguato spettro di probabilità in grado di “anticipare” la conoscenza corretta nel manifestarsi delle varie forme morbose. Per prevenzione primaria si intendono le azioni che mirano a promuovere e mantenere la salute con interventi individuali e/o collettivi messi in atto su una popolazione di individui sani (in sostanza si tratta di ridurre o eliminare i fattori di rischio).

Nell’ambito della prevenzione secondaria si colloca la diagnosi precoce e/o l’intervento di terapia per mezzo di uno screening conoscitivo adeguato. Con la prevenzione terziaria ci si rivolge agli interventi che mirano a prevenire le complicazioni di forme morbose già in atto e non reversibili. Mentre per le malattie infettive ha un valore essenziale la prevenzione primaria e solo in parte è possibile intervenire con gli strumenti della prevenzione secondaria, nelle malattie a carattere cronico-degenerativo l’intervento di prevenzione è possibile con ampio spettro. Nella fase “libera” delle patologie non infettive, quando si deve agire sui fattori di rischio, l’intervento riguarda i molteplici aspetti relativi alla salubrità dell’ambiente e alle abitudini di vita, mentre prima del manifestarsi di una forma clinica conclamata (circostanza nella quale è possibile solo una prevenzione terziaria), gran parte dell’azione benefica si gioca nel periodo pre-clinico intervenendo con una diagnosi precoce (vera prevenzione secondaria ottenuta con metodiche di screening opportune).

I fattori di rischio possono essere riferiti all’individuo o essere attribuiti a elementi ai quali la persona è esposta. In pratica esistono fattori genetici di rischio non modificabili, e fattori almeno in parte modificabili (caratteristiche ambientali e stile di vita). Già in passato, in queste pagine, è stata trattata l’importanza dei check-up e della loro efficacia. Si ribadisce di nuovo che la situazione attuale economico-sociale, in un clima “duro” di spending review, se devono essere salvaguardati i progressi ottenuti nell’assistenza sanitaria, impone di utilizzare strumenti in grado di attivare un monitoraggio della popolazione sana o a rischio proprio per ridurre lo stato di “non ritorno” che la malattia degenerativa assume nella sua spesso inevitabile evoluzione cronica. Le analisi di laboratorio, l’adeguato controllo clinico-specialistico, una corretta anamnesi dell’individuo sano nel contesto delle procedure per la prevenzione secondaria sono elementi cruciali di acquisizione dati.

Ma è essenziale che questi dati siano sintetizzati in forma di contenuti “operativi”, leggibili e comprensibili per il soggetto in esame. Il costo “economico” di un check-up è di sicuro inferiore al valore diagnostico e di monitoraggio che implica la sua attuazione. Indubbiamente c’è il rischio di una qualche dispersione delle informazioni se queste vengono acquisite in forma episodica, come conoscenza “spot” (tanto per fare e per sentirsi “tranquilli”).

Il futuro, per altro già iniziato e in fase di evoluzione, dovrà tenere sempre in maggiore considerazione lo stretto legame tra background genetico individuale e il rischio del manifestarsi di un processo morboso. Quindi è compito della ricerca medica applicata operare sulla base di screening in grado di utilizzare metodiche nuove in un contesto di sintesi clinica corretta, non più semplificabile. In questo numero viene illustrata, per esempio, una metodica di laboratorio per la diagnosi allergologica (test con microarray), ma è solo un esempio di come dovremo affrontare l’introduzione in diagnostica dei sistemi di indagine molecolare su larga scala.

La nostra popolazione, in Italia (ma anche in altri nazioni) invecchia e una malattia cronico-degenerativa, per definizione, si manifesta dopo un lungo periodo di latenza (anche decenni) con sintomi vaghi e non facilmente interpretabili. L’attuazione di uno check-up adeguatamente predisposto con metodiche di laboratorio adeguate (e nella giusta età) è la premessa di una sintesi efficace tra contenimento della spesa (che si può senz’altro ridurre) e qualità/durata della vita. Come è stata già detto da alcuni, è importante non dare anni alla vita, ma vita agli anni. Siamo ora in un punto critico nel quale le discipline di base e applicate possono fornire un contributo pratico solo se integrate in breve tempo nel loro operare.

Le discipline statistiche e di analisi con modelli matematici offrono una nuova dimensione alle opportunità di conoscenza, non più riconducibili a sistemi rigidi applicati acriticamente: scegliere un check-up individuale deve essere frutto di una lavoro in progress, nel quale non certo paradossalmente, si valorizza la metodologia clinica di sempre (a sua volta “rimodellata” nel contesto di una visione biologica e pertanto mutabile dell’evento osservato). Il progetto è: prevenzione secondaria personalizzata, adeguato screening preclinico su base genetico-molecolare (fase iniziale ma in rapido sviluppo), eliminazione di test inutili e applicazione di una routine essenziale nei controlli periodici predefiniti. In sintesi: dalla quantità “aspecifica” degli esami alla qualità “personalizzata” per una diagnosi corretta e precocemente effettuata.


DISFUNZIONE ERETTILE E TERAPIA DI PRIMO LIVELLO
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Per disfunzione erettile (DE) si intende la difficoltà a indurre e/o mantenere un’erezione valida per un rapporto sessuale soddisfacente. Indagini epidemiologiche indicano una crescente incidenza nei prossimi anni di questa patologia, e l’invecchiamento medio della popolazione sembra essere un causa importante di questa evoluzione. La prevalenza di DE a livello mondiale aumenterà dai 152 milioni di uomini nel 1995 a quasi 322 milioni nel 2025 (1).

I pazienti potenzialmente più a rischio di sviluppare una DE di tipo organico sono:

•anziani;

•diabetici;

•soggetti con patologie cardiovascolari;

•ipertesi;

•dislipidemici,

•fumatori;

•pazienti depressi;

•pazienti sottoposti a chirurgia pelvica demolitiva;

•pazienti affetti da patologie peniene tipo induratio penis plastica.

 

Una categoria a parte sono i pazienti affetti da DE di origine psicogena.

Esiste poi una percentuale rilevante di pazienti affetti da DE a patogenesi mista (organica + psicogena).

Le alterazioni di tipo vascolare rappresentano la causa più frequente di DE (2).

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Un dato particolarmente interessante emerso in studi piuttosto recenti è che la cardiopatia ischemica ha una stretta associazione con la DE e questa, spesso, precede la manifestazione clinica della malattia coronarica (3).

La fine degli anni novanta del XX secolo è una tappa storica per l’andrologia. Vengono, in quegli anni, evidenziati gli effetti benefici del Sildenafil (Viagra) sull’erezione. D’allora la diagnosi e la terapia dei pazienti affetti da DE ha subito un radicale mutamento. In commercio oggi esistono anche altre molecole, Tadalafil (Cialis) e Vardenafil (Levitra). Questa categoria di farmaci viene chiamata inibitori della fosfodiesterasi 5, proprio per la loro azione a livello del tessuto cavernoso che favorisce il rilasciamento della muscolatura liscia con conseguente aumento dell’afflusso del sangue.

Gli inibitori delle fosfodiesterasi 5 sono compresse da assumere al bisogno, (15’-30’, alcune ore prima, dipende dalla molecola), o in cronico (Cialis 5), indipendentemente dal momento del rapporto sessuale.

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Per tutte e tre le categorie di farmaci è necessaria una adeguata stimolazione sessuale post assunzione e per alcune è preferibile evitare pasti abbondanti prima o subito dopo.

La terapia con Viagra, Cialis, o Levitra, oggi è considerata il trattamento di primo livello per i pazienti affetti da DE. Non bisogna tuttavia trascurare di modificare eventuali fattori di rischio e/o stile di vita (abolizione del fumo, riduzione nell’assunzione di alcool, riduzione del peso, ecc.)

La risposta agli inibitori PDE5 migliora correggendo gli eventuali scompensi metabolici (diabete non controllato, ecc.) e normalizzando una eventuale carenza di testosterone.

In alcuni pazienti le prime compresse possono non dare il risultato sperato (motivazioni psicologiche, timori di effetti collaterali, tempi non rispettati, paura di non avere una risposta adeguata). In altri l’acquisto improprio, tramite internet, può causare un’alterata o pericolosa risposta al trattamento. Generalmente per considerare i soggetti sicuramente non responder, si consiglia di aspettare come minimo otto somministrazioni senza un’adeguata risposta. In tal caso si dovrà procedere con le indagini diagnostiche e terapeutiche di secondo livello.

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L’efficacia clinica delle tre molecole di inibitori delle fosfodiesterasi 5 è quasi sovrapponibile.

Bisogna pertanto personalizzare il trattamento in funzione delle esigenze dell’individuo e dell’esperienza del medico.


L’ATTIVITÅ FISICA QUALE PREVENZIONE E CURA DELL’OSTEOPOROSI

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È ormai ampiamente dimostrato che l’età media dell’individuo è, senza ombra di dubbio, decisamente aumentata. L’Italia ha la popolazione più longeva in Europa con una media di 76 anni per il sesso maschile e di 82 anni per quello femminile.

La “Terza Età” oggi rappresenta una fetta importante della popolazione alla quale è necessario dedicare la giusta attenzione per poter garantire uno stile di vita adeguato. Il problema che si pone è la non-corrispondenza tra mente e corpo, con livelli di vita socio-economici sempre più evoluti. Con la miriade di sollecitazioni e di informazioni anche da parte dei “mass media” oggi l’anziano è un soggetto assai consapevole della propria realtà ed esigenze, ancora impegnato dal punto di vista lavorativo o comunque inserito nel contesto sociale o familiare nel quale ha un ruolo importante, per esempio, nella gestione quotidiana dei nipoti.
L’anziano è ancora in grado di condurre un autoveicolo e d’altra parte è sicuramente più esposto ai rischi di un ritmo di vita frenetico poiché la sua capacità di adattamento è minore rispetto a quella di un soggetto giovane.

I livelli di attenzione debbono essere mantenuti piuttosto alti (basti pensare alla guida di un autoveicolo in una grande città) anche se tutto questo è sicuramente molto stimolante per il cervello.

Ma l’aumento del livello socio economico porta anche sedentarietà e cattiva alimentazione. Quest’ultima negli anni è diventata sempre più sofisticata e impoverita dei suoi contenuti essenziali e il fattore alimentare ha una grande importanza nel mantenimento di una corretta forma fisica in rapporto con l’età.

Un’ultima considerazione degna di nota è che spesso si arriva alla soglia della Terza Età e ci si accorge che il fisico non è poi così allenato come ci si aspetta o si scopre di essere affetti da una patologia osteopenica od osteoporotica: il fenomeno molto frequentemente si osserva nella fascia adulta che va dai 25 ai 45-55 anni, fascia nella quale una rilevante frazione pratica il cosiddetto “low training”, ossia un’attività fisica moderata che non è utile all’organismo in quanto non provoca modificazioni su di esso ma che il soggetto ha l’illusione comunque di svolgere.
Per una buona prevenzione o per il mantenimento dei risultati raggiunti nella cura dell’osteoporosi un punto fermo è rappresentato dall’esercizio fisico. Gli effetti benefici del movimento sono molteplici, anche perché la sedentarietà diminuisce le forze muscolari applicate all’osso e quindi lo scheletro riduce la sua mineralizzazione come adattamento. Ecco perché, per essere efficace, il movimento deve avvenire contro gravità (e non in acqua), come dimostra l’osteopenia a cui sono andati incontro gli astronauti dopo una prolungata assenza di peso o dalla differenza di densità ossea tra un atleta e un individuo sedentario.

Come i muscoli, anche le ossa si irrobustiscono con l’esercizio per i seguenti motivi: con il movimento, si genera una stimolazione meccanica dinamica che causa un effetto osteoblastico sull’osso; questo avviene perché i cristalli di calcio, sottoposti a tensione meccanica alternata, generano variazioni di cariche elettriche all’interno di esso con stimolazione del metabolismo cellulare.

Un altro fattore importante deriva dal fatto che, essendo l’osso una struttura resistente ma anche elastica, è indispensabile che i cristalli di calcio si depongano secondo precise geometrie in modo biomeccanicamente ottimale. Di contro, se si assume calcio ma non si fa movimento potremo far aumentare la densità ossea ma con una disposizione casuale con il risultato di un osso più rigido e meno elastico. Anche l’attività fisica aerobica è importante poiché migliora l’irrorazione, cioè aumenta l’arrivo di sangue ai tessuti, con relativo aumento di concentrazione di materiali nutritivi e ossigeno.

Eventuali terapie farmacologiche potrebbero anche subire una riduzione dei dosaggi terapeutici.

Studi clinici hanno dimostrato che, in soggetti anziani sottoposti ad attività fisica, il rischio di cadute si riduce fino al 57,3%, come pure è stato evidenziato un aumento tra il 2,5% e il 5% della densità minerale ossea in donne in menopausa, usualmente sedentarie, dopo 7-9 mesi di esercizio fisico di 2-3 ore alla settimana.
I punti cardine del movimento sono rappresentati da:

•coordinazione dinamica generale;

•equilibrio miotensivo e posturale;

•resistenza cardio-polmonare (se possibile).
La sollecitazione avviene mediante esercizi che possono essere generali e distrettuali, isometrici, isotonici a carico naturale, con pesi leggeri o resistenza elastica progressiva, poiché si deve generare una stimolazione moderata in senso compressivo, intermittente, prolungata nel tempo.

Oltre alle ginnastiche cosiddette “dolci”, le attività migliori sono rappresentate dal cammino, dalla marcia, dal salire le scale e ballare.

Infine, bisogna considerare anche l’aspetto psicologico, estremamente importante poiché il sentirsi meno utili nella società è spesso motivo di depressione nel soggetto anziano; il gruppo dunque è fondamentale per stimolare interesse e scambi emotivi; se poi è eterogeneo è senz’altro più positivo, e l’anziano non viene ghettizzato.
E ancora, il miglioramento della funzionalità, oltre a ritardare la perdita di indipendenza e a dare una maggiore consapevolezza e scioltezza dei movimenti, contribuisce al raggiungimento di una buona qualità di vita con una maggiore stimolazione cerebrale.

In FISIOBIOS, struttura dedicata alla Medicina Fisica e Riabilitazione, si eseguono programmi personalizzati sia individuali sia in piccoli gruppi per la cura e la prevenzione dell’osteoporosi. 


FATTORI DI RISCHIO ASSOCIATI ALL’IPERTENSIONE:
STRATEGIE DI TRATTAMENTO

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La presenza di fattori di rischio associati all’ipertensione (quali dislipidemia, fumo, diabete mellito) condiziona la stratificazione del rischio cardiovascolare e come tale influenza la prognosi del paziente iperteso. Questa stratificazione si basa sia sull’entità dei valori pressori sia sulla presenza di danno d’organo, ma anche sull’associazione con i fattori di rischio cardiovascolare. Numerosi studi infatti hanno mostrato come la mortalità e la morbilità del paziente iperteso siano fortemente influenzate dalla presenza di fattori di rischio cardiovascolari associati.

Si concorda quindi unanimemente che un approccio terapeutico corretto al paziente affetto da ipertensione arteriosa non possa esulare da un approccio globale che abbia come target oltre ai valori pressori, anche il trattamento dei fattori di rischio associati, dato ben evidenziato dalle Linee Guida Europee ESH/ESC dell’ipertensione arteriosa del 2007 e la loro recente revisione del 2009 (1,2).

Terapia ipolipemizzante

È noto come i livelli di colesterolo nel sangue siano correlati allo sviluppo di eventi cardiovascolari. Questa associazione è ancora più evidente per la malattia coronarica rispetto all’ictus.

Molti trials clinici hanno valutato gli effetti positivi della terapia con statine sia in prevenzione primaria sia secondaria.

Nonostante i dati siano a favore di una più stretta relazione tra livelli plasmatici di colesterolo ed eventi coronarici rispetto a quelli cerebrovascolari, gli studi interventistici mettono in evidenza una notevole efficacia delle statine nel ridurre entrambi gli eventi, indipendentemente dalla presenza di ipertensione arteriosa. Ad esempio lo studio Heart Protection Study ha dimostrato che la simvastatina riduceva significativamente gli eventi cardiaci e cardiovascolari in pazienti con malattia vascolare conclamata. Risultati analoghi sono stati ottenuti con la pravastatina nello studio PROSPER, condotto in pazienti anziani, il 63% di essi iperteso.

Un effetto preventivo efficace è stato osservato anche con l’atorvastatina in pazienti con pregresso stroke. Quindi tutti i pazienti ipertesi con malattia cardiovascolare conclamata o con diabete mellito di tipo 2 dovrebbero essere candidati alla terapia con statine, avendo come target terapeutico una riduzione di colesterolo inferiore a 100 mg/dL o meno, se possibile.

Inoltre i pazienti ipertesi senza malattia cardiovascolare conclamata, ma con elevato rischio cardiovascolare (> 20% a 10 anni) dovrebbero eseguire una terapia con statina in ogni caso, anche se il colesterolo LDL non è elevato (1,2,3).

Controllo glicemico

Un efficace controllo glicemico è senz’altro fondamentale per ridurre l’incidenza di complicanze macro e microangiopatiche nei pazienti ipertesi diabetici, nei quali il trattamento ha l’obiettivo di ridurre i valori di emoglobina glicata al di sotto del 7.0%. Un atteggiamento più aggressivo (< 6.5%) potrebbe essere auspicabile in pazienti con diabete di più recente insorgenza, minor rischio di ipoglicemia severa e assenza di importanti comorbidità (3).

Terapia antiaggregante

La terapia antiaggregante piastrinica, in particolare l’aspirina a bassa dose (75-100 mg/die), dovrebbe essere prescritta a tutti i pazienti ipertesi con pregresso evento cardiovascolare (prevenzione secondaria), valutando il rischio di sanguinamento.

L’aspirina a basse dosi può essere considerata invece in prevenzione primaria nel paziente iperteso, se ad elevato rischio, nei diabetici o nei pazienti con un moderato aumento della creatininemia.

Tuttavia per evitare il rischio di emorragia cerebrale, la terapia antiaggregante piastrinica dovrebbe essere intrapresa dopo il raggiungimento di un buon controllo pressorio (target pressorio: <140/90) (1,2,3).

In conclusione l’individuazione e il trattamento dei fattori di rischio associati all’ipertensione è di fondamentale importanza ai fini di un approccio globale al paziente iperteso (linee guida ESH/ESC del 2007 e loro recente revisione). Infatti la mortalità e la morbilità cardiovascolare del paziente iperteso sono fortemente influenzati dalla compresenza di altri fattori di rischio associati, che quindi devono essere adeguatamente trattati.


MIXING

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SIGARETTA ELETTRONICA

Il suo vantaggio è che non avviene combustione: non sono cioè rilasciate sostanze cancerogene prodotte dalle comuni sigarette. È stata finora considerata una valida alternativa per i fumatori. Ma un’ordinanza del Ministero della Salute ne vieta la vendita ai minori di 16 anni poiché la quantità di nicotina in essa contenuta, sia pure minima, potrebbe causare dipendenza e poi indurre all’uso della sigaretta tradizionale.

ANTICOAGULANTI NEL POMERIGGIO

Alcuni cardiologi, non tutti, consigliano di assumerli nel pomeriggio in quanto – realizzandosi in tal modo il più alto tasso ematico nelle ore notturne – proteggono meglio dalla trombosi, facilitata dal rallentato flusso ematico proprio della notte.

FANS E CARDIOPATIA ISCHEMICA

Nei coronaropatici occorre prudenza nell’uso degli antiinfiammatori non steroidei, specie naprossene e indobufene, poiché potrebbero favorire l’infarto miocardico. L’uso prolungato dei FANS potrebbe anche aumentare il rischio di fibrillazione atriale.

BETABLOCCANTI E BPCO 

Nei pazienti con bronchite cronica ostruttiva o con asma bronchiale, tra questi farmaci, sono da preferire quelli cardioselettivi (atenololo, metoprololo, acebutololo, bisoprololo, nebivololo) che agiscono sui recettori cardiaci beta-l. Sconsigliati quelli che agiscono sui recettori beta-2, presenti nelle vie respiratorie.

RISCHIO DI TROMBOEMBOLISMO VENOSO

Uno studio su 2.300 soggetti ha consentito di prevedere i seguenti rischi per questa patologia: età avanzata, sovrappeso, fumo, varici, neoplasie, scompenso cardiaco, pneumopatia cronica ostruttiva, flogosi intestinali, farmaci (estro progestinici, tamoxifene, antipsicotici), allettamenti prolungati.

ESOFAGO DI BARRETT 

Interessa l’esofago distale nel quale l’epitelio squamoso è sostituito da epitelio colonnare, di tipo gastrico o intestinale. È soprattutto in questo secondo caso che vi è il rischio di adenocarcinoma esofageo, specie se si tratta di uomini oltre 50 anni: utile l’endoscopia ogni 2 anni; per l’altro tipo è sufficiente ogni 5 anni.

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PISTORIUS E LE OLIMPIADI DI LONDRA 2012. 

Oscar Pistorius, il famoso corridore disabile di 25 anni, nato a Johannesburg, all’età di 11 mesi subì l’asportazione delle gambe per una malformazione alla nascita. Probabile piede torto congenito (equino-varo), affezione più frequente nei maschi; molto più frequente nelle femmine è la lussazione congenita dell’anca. Già campione paraolimpionico, desiderava fortemente partecipare per la corsa alle Olimpiadi di Londra 2012. Il Comitato olimpico sudafricano ha dato parere favorevole per la “400 metri” e la staffetta. L’eventuale ostacolo sarebbe nato dal fatto che, in questo caso, la componente umana della sua prestazione sportiva sarebbe stata pesantemente sopraffatta dalla componente tecnologica: gambe e piedi in fibra di carbonio.

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SOSPENSIONE DELl’ASA

Pazienti in cura con ac. acetilsalicilico per una pregressa ischemia cardiaca o cerebrale non dovrebbero mai sospenderlo – neppure per pochi giorni – in quanto potrebbero rischiare una recidiva ischemica.

LE GUARIGIONI DI LOURDES 

Vige in merito il massimo rigore da parte del “Bureau mèdicale”. Meno dell’1% delle guarigioni ritenute non spiegabili dal punto di vista medico è ratificato come miracolo: la guarigione deve essere “istantanea”, “perfetta”, “duratura”.

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A TUTTO CAMPO

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Storia della gotta
In questa caricatura d’epoca (1800), su una famosa rivista satirica inglese, sono illustrate in un soggetto le tipiche manifestazioni della gotta, ossia l’impegno infiammatorio e doloroso di alcune sedi articolari (piedi e una mano); contestualmente gli altri due protagonisti del convivio lamentano disturbi riferibili ad effetti collaterali dell’assunzione del “Porto” (“Punch”): deperimento organico (“tisik”) e diarrea (“colic”) dovuti al contenuto in piombo della bevanda! L’impiego successivo del “Madera” evitava questi effetti tossici.

Spunti storici sull’anatomia del “lato B”

Nella porzione inferiore del così detto “lato B” a cavallo del XVIII secolo Adolf Michaelis, ginecologo di Kiel, descriveva la omonima “losanga” le cui estremità laterali sono rappresentate dalle così dette “fossette” di Venere, che corrispondono alle spine postero-superiori dell’osso iliaco. Nella suddetta area Stanislas de Sèze e Antoine Ryckewaert segnalano la possibilità di riscontrare alla palpazione la presenza di due noduli, espressione di ernie grassose che attraversano l’aponeurosi profonda; questi noduli sono le “ernie di Copeman”. Le ernie di Copeman sono più frequenti nel sesso femminile e talvolta possono essere dolorose.
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Le frecce evidenziano le caratteristiche “Fossette di Venere”.

Anencefalia

Un triste argomento portato recentemente all’attenzione del pubblico dai mass-media è quello dell’anencefalia. La notizia sull’anencefalia ha portato alla ribalta la scarsa conoscenza sulla reale prevalenza di questa malformazione e d’altra parte ha messo in luce la delicata questione dell’eventuale interruzione di gravidanza, una volta accertata ecograficamente detta malformazione. Va precisato che per anencefalia si intende l’assenza congenita della volta cranica con gli emisferi cerebrali, completamente assenti o ridotti a piccole masse adese alla base cranica. È una condizione incompatibile con la vita.

Autismo: un problema che supera i confini della famiglia

Ognuno di noi ha in sé un mondo esclusivo, con il quale convive perennemente e che “confronta” con quello esterno, nel rispetto di precise regole sociali. Il bambino autistico è chiuso in un suo mondo inaccessibile, ha uno sviluppo psichico diverso da quello degli altri bambini e rende estremamente difficile ogni rapporto anche con la stessa famiglia. Taluni di questi bambini hanno difficoltà ad esprimersi e altri non si esprimono affatto; comunque il loro linguaggio è del tutto personale e non finalizzato al rapporto interpersonale. La patogenesi di questa condizione è tuttora oggetto di discussione: secondo la psicoanalisi l’evoluzione patologica della personalità autistica dipenderebbe dallo stesso rapporto iniziale madre-bambino. Comunque non si può ancora dire con certezza se le cause siano organiche, psicologiche o di entrambi questi fattori. È più che evidente che il problema del bambino autistico coinvolge in modo drammatico la famiglia, che deve essere informata sul comportamento che deve assumere nei confronti del bambino stesso: infatti devono essere esclusi ogni forma di isolamento sociale e ogni atteggiamento di rassegnazione a questa eventualità. Si devono assumere iniziative per ottenere aiuti pubblici e privati, al fine di garantire al bambino ogni possibilità, anche se limitata, di guarigione.

Ippocratismo digitale

L’ingrossamento delle falangi ungueali delle dita delle mani (vedi foto) e/o dei piedi giustifica il termine “dita a bacchetta di tamburo”; si associa il dismorfismo delle unghie, definite a “vetrino di orologio”. Questo dismorfismo, denominato “ippocratismo digitale”, può essere isolato oppure espressione dell’osteopatia ipertrofizzante pneumica di Bamberger-Pierre Marie. È importante sottolineare l’importanza di tale reperto “storico” che può rappresentare un segno di allarme per un’eventuale neoplasia polmonare o affezione acuta o cronica dell’apparato respiratorio (ascesso polmonare, bronchiectasie). Questa manifestazione, per i suddetti motivi, rientra nel capitolo delle affezioni paraneoplastiche e risponde al criterio della scomparsa con l’eliminazione della relativa causa. Le “dita a bacchetta di tamburo” possono anche essere l’espressione di una patologia lavorativa, come nel caso dei tornitori.
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Esempio delle dita ippocratiche con le caratteristiche “bacchette di tamburo” e le unghie che assumono la forma a “vetrino d’orologio”.

 


TERAPIA ANTIBIOTICA RAGIONATA

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I medici vengono frequentemente accusati di prescrivere troppo spesso gli antibiotici, ma non possiamo non considerare quanto sia difficile impostare una terapia chemio-antibiotica razionale nelle infezioni acute acquisite in comunità, senza la possibilità di una rapida diagnosi microbiologica. Il quadro clinico spesso non permette di differenziare le forme virali, che non necessitano di antibioticoterapia, da quelle batteriche. Inoltre di fronte a una malattia come quella infettiva – che presenta i caratteri della patologia acuta e che necessita quindi di un trattamento immediato – il medico deve prendere decisioni rapide, e all’inizio non può che basarsi su valutazioni essenzialmente epidemiologiche e cliniche.

Cerchiamo quindi di conoscere le basi per una corretta antibioticoterapia ragionata e per fare in modo che non si legga più su famosi testi di Farmacologia (Goodman and Gilman: The Pharmacological Basis of Therapeutics) che “antibiotics: these pharmaceutical agents have become the most misused of those available to the practicing physician”.

Cenni storici

Paul Ehrlich (1854-1915), allievo di Koch, è considerato il padre della Chemioterapia,

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sempre alla ricerca della “pallottola magica” (“die Zauberkugel”) che riuscisse a legarsi ai germi e quindi a ucciderli. Egli diceva sempre che: “corpora non agunt nisi fixata”.

Alla notizia che Laveran trattava la tripanosomiasi con l’arsenico, studiò una sostanza arsenicale atossica ma poco efficace (chiamata Atoxil), da cui preparò 606 derivati, l’ultimo dei quali (il Salvarsan, ancora tossico, e poi il Neo-Salvarsan, utilizzabile in terapia) aveva attività oltre che sui Tripanosomi anche sulla Spirocheta pallida, causa della Sifilide (che dal 1494, quando le truppe di Carlo VIII tolsero l’assedio a Napoli e tornarono in Francia, iniziò a devastare l’Europa).

Fu poi l’osservazione di Alexander Fleming (1881-1955) sulla inibizione batterica di una sostanza, che denominò Penicillina, prodotta da un altro germe (una muffa), che aprì il campo allo sviluppo della terapia antibiotica. Somministrata a vari animali con infezioni batteriche, svolgeva una inaspettata attività terapeutica; Fleming riferì tali risultati il 3 febbraio 1929 al Medical Research Club, ma fu accolto solo da ilarità; ne fece allora comunicazione al Br J Exp Path, senza suscitare interesse.

Nel 1940 Fleming

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lesse sul Lancet del 29 agosto che due ricercatori di Oxford, H.W. Florey ed E.B. Chain, avevano ottenuto risultati sorprendenti trattando con la penicillina topi infetti. I tre studiosi lavorarono da allora insieme (e con Abraham); il 12 febbraio 1941 somministrarono il farmaco al poliziotto Albert Alexander, colpito da una grave sepsi strepto-stafilococcica, ottenendo una miracolosa guarigione. Da allora, impiegando prima il Penicillum notatum e poi il P. chrisogenum esplose l’impiego in terapia di questo farmaco.

I tre ricercatori ebbero il premio Nobel nel 1945. Fleming morì nel 1955 e la sua tomba è nella Crypt Chapel della St Paul’s Cathedral di Londra, vicino a quelle di Wellington, Nelson e Lawrence d’Arabia.

A Giuseppe Brotzu si deve la scoperta delle Cefalosporine.

Professore in Igiene dell’Università di Cagliari, nel 1944 capì perché le acque di mare, che vicine allo scarico delle fogne erano torbide, 300 mt più in là divenivano limpidissime. Infatti quelle torbide pullulavano di salmonelle Typhi-murium, mentre dove divenivano chiare era presente una certa muffa. La muffa era il Cephalosporium acremonium e Brotzu ipotizzò che qualche sostanza prodotta dalla muffa (che egli stesso denominò Cefalosporina) inibisse lo sviluppo delle salmonelle. Nessuno in Italia gli dette credito e solo nel 1948, in Inghilterra, Florey e altri fecero conoscere al mondo le cefalosporine.

Iniziò così l’era degli antibiotici.

Come agisce l’antibiotico 

Ricordiamo che OGNI INFEZIONE È UNA GARA DI CORSA tra la carica microbica che tende a elevarsi e il progressivo dispiegarsi della risposta immunitaria che tende a ridurla, fino a dominarla ed eliminare il patogeno. Un antibiotico efficace, riducendo la carica microbica, aiuta le difese immunitarie a vincere la gara.

L’aggiunta di un antibiotico in dosi adeguate a una coltura batterica può ottenere tre effetti:

•non modificare la curva di crescita (resistenza);

•bloccarla (batteriostasi);

•ridurla verso lo zero (batteriolisi).

Le modalità di azione che i vari antibiotici svolgono sui germi sensibili sono diverse; le principali sono:

1)inibizione sintesi o/e assemblaggio di strutture parietali (betalattamine che si legano alle PBP, glicopeptidi, bacitracina, polimixine);

2)interferenza con i processi di sintesi proteica

-a livello dei ribosomi (50s =macrolidi e CAF, 30s = tetracicline e amino-glicosidi);

-per interazione con proteine varie,cui seguono alterazioni metaboliche (sintesi di acido folico= cotrimoxazolo), proteosintetiche (RNA – sintetasi = mupirocina), della sintesi del DNA (DNA-girasi A = chinolonici; DNA – girasi B = novobiocina), sintesi dell’RNA (RNA – polimerasi = rifampicina), interazione diretta con acidi nucleici (metronidazolo).

Comunque perché agisca, il farmaco deve riuscire a legarsi a specifiche strutture batteriche in quantità adeguata a svolgere il suo effetto. Pertanto, ampliando la definizione di Ehrlich, possiamo dire che “corpora non agunt nisi satis fixata”.

Risulta fondamentale, oltre alle dosi e alla modalità di somministrazione del farmaco, lo studio della sua FARMACOCINETICA cioè delle caratteristiche di assorbimento, distribuzione, legami, metabolismo ed escrezione del farmaco, e della concentrazione che esso può raggiungere nella sede della sua azione, in relazione alle condizioni cliniche del paziente.

Si definisce BIODISPONIBILITà di un farmaco la percentuale che questo raggiunge nel sangue rispetto alla quantità somministrata; essa varia a seconda della via di somministrazione: 100% se per via endovenosa, variabile se per os o per i.m., a seconda della molecola impiegata e di altri aspetti fisiologici dell’ospite (ad esempio se diamo rifampicina a stomaco vuoto, l’assorbimento è rapido e la biodisponibilità elevata; l’opposto se a stomaco pieno).

È importante ricordare che molti antibatterici continuano a svolgere azione inibente per ore (cosiddetto Effetto post-antibiotico) anche dopo che la loro concentrazione è ridiscesa al di sotto della MIC.

Definiamo MIC o Concentrazione minima inibente per una data specie microbica la minore concentrazione del farmaco che riesce a svolgere effetto battericida o batteriostatico per il maggior numero di cellule batteriche (MIC50 per il 50% e MIC90 per il 90% delle colonie).

Se la concentrazione raggiunta da un antibiotico nella sede dell’infezione supera la MIC in vitro rilevata per quel germe, si otterrà la sua eradicazione; se è inferiore avremo un insuccesso terapeutico.

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Ma esistono altri fattori, suggeriti dalla Farmacodinamica, per ottenere un più efficace effetto antibatterico.

Infatti i farmaci battericidi sono divisi, in base alla velocità d’azione, in:

1)farmaci rapidamente battericidi (o concentrazione-dipendenti): per esempio AMINOGLICOSIDI, FLUOROCHINOLONICI, per la cui migliore efficacia è meglio somministrare dosi elevate, per raggiungere alte concentrazioni, anche a intervalli lunghi;

2)farmaci battericidi lenti (o tempo-dipendenti): per esempio BETALATTAMICI, GLICOPEPTIDI, MACROLIDI, che vanno invece somministrati con maggiore frequenza, anche continuativamente.

La resistenza batterica

Nel marzo 1942 una donna di 33 anni a New Haven (Connecticut) stava morendo per una sepsi streptococcica; ottenuta una piccola quantità di una nuova sostanza da poco scoperta, chiamata Penicillina, i medici la iniettarono. Dopo ripetute dosi, dal sangue della malata scomparvero gli streptococchi, la donna guarì e visse poi fino a 90 anni. Sessantasei anni dopo, in San Francisco, un uomo di 20 anni, con una endocardite causata da un enterococco (E. fecium) vancomicina-resistente, fu trattato per giorni e giorni con i più potenti antibiotici disponibili; ma i medici non riuscirono a sterilizzare il suo sangue e il malato morì ancora batteriemico (NEJM 360: 5 january 29, 2009).

La resistenza viene definita, da un punto di vista microbiologico, come la capacità di alcuni microrganismi di una specie di sopravvivere (e anche moltiplicarsi) in presenza di concentrazioni di antibiotico di norma sufficienti per inibire o uccidere i microrganismi della stessa specie

Dal punto di vista clinico, se la concentrazione di farmaco necessaria per inibire o uccidere il microrganismo è maggiore della concentrazione tollerata dall’ospite, il germe è considerato resistente.

Perché si instaura la resistenza batterica?

“È legge naturale che, nel prevalere di popolazioni su altre, nella lotta per l’esistenza, risultino favorite quelle più idonee ad adattarsi e a superare le variabili condizioni sfavorevoli dell’ambiente” (Darwin).

E l’antibiotico modifica le condizioni ambientali; il nuovo ambiente induce la prevalenza (“natural selection” e “preservation”) delle specie microbiche resistenti, che ora risultano favorite (“favoured races”) rispetto a quelle sensibili.

La resistenza può essere acquisita:

•tramite una o più mutazioni dei propri geni cromosomici, trasmessa poi verticalmente alle cellule figlie;

•più frequentemente tramite il trasferimento orizzontale di fattori genetici di resistenza da parte di cellule donatrici, per trasformazione, trasduzione o coniugazione.

Lo scambio trasversale di materiale genetico avviene mediante elementi genetici mobili, quali plasmidi – elementi spesso portatori di virulenza – e trasposoni – elementi più piccoli che traslocano – o tra parti dello stesso cromosoma, o tra cromosomi e plasmidi e viceversa, oppure tra cromosomi di batteri diversi (detti trasposoni coniugativi). Nel batterio che riceve, il trasferimento genico è favorito dagli integroni (“facilitanti l’integrazione”), che costituiscono siti per l’inserzione dei geni di resistenza; talora questi siti sono raggruppati in cassette mobili, che permettono il trasferimento di resistenza multipla.

La pressione selettiva degli antibiotici (ingigantita dal loro impiego eccessivo) favorisce poi la selezione e il predominio dei ceppi resistenti rispetto a quelli più sensibili.

Resistenza acquisita. Meccanismi principali:

1)inattivazione dell’antibiotico da enzimi prodotti dai batteri (es. betalattamasi);

2)modifica dei target batterici, con ridotta affinità di legame, sia sulle PBPs parietali (pneumococco per le betalattamine), sia sulle subunità ribosomiali 50S (sito peptidil- transferasico per i macrolidi) e sia su alcuni geni (es. girasi e topoisomerasi IV per i chinoloni);

3)efflusso attivo del farmaco, con riduzione delle concentrazioni intrabatteriche dell’antibiotico (betalattamine, macrolidi, chinolonici, CAF, tetracicline, am-glicos.).

Altre situazioni possono indurre resistenza alla terapia antibiotica, come ad esempio alcuni comportamenti delle colture batteriche che permettono ai germi di non essere raggiunti dai farmaci. Un esempio è quello dei cosiddetti BIOFILM. Un biofilm è un assemblaggio di cellule microbiche fortemente adese a una superficie e inglobate in una matrice di materiale di tipo polisaccaridico (“slime”).

Gli organismi unicellulari solitamente mostrano due distinte modalità di comportamento. La prima è la familiare forma fluttuante, o planctonica, nella quale le cellule separate fluttuano o nuotano indipendentemente in un supporto liquido. La seconda è lo stato aggregato, o sessile, in cui le cellule sono strettamente vincolate e fermamente attaccate l’una all’altra e anche, di solito, a una superficie solida. I biofilm formati da molte specie di batteri prendono il nome di “consorzio batterico”.

La formazione di biofilm sembra essere disciplinato dalla secrezione di molecole particolari, secondo un processo di comunicazione tra cellule batteriche, denominato “quorum sensing”. I batteri presenti in un biofilm possono essere fino a 4.000 volte più resistenti agli antibiotici rispetto a quando si trovano in un ambiente allo stato libero.

I maggiori problemi di resistenza sono quelli legati a:

•Strept. pneumoniae per le betalattamine;

•Enterococco per vancomicina e teicoplanina;

•Staph. aureus per la meticillina e poi per la vancomicina;

•Enterobatteri per le cefalosporine di terza generazione (soprattutto da betalattamasi ad ampio spettro – ESBL-);

•Batteri gram positivi e negativi per i chinolonici;

•Bacillo di Koch.

Oggi si parla di:

•TB multi-resistente (MDR-TB); resistenza ad almeno isoniazide e rifampicina;

•TB a resistenza estesa (XDR-TB): MDR-TB con resistenza anche a tutti i fluorochionolonici e ad almeno 1 dei 3 farmaci iniettabili di secondo impiego (capreomicina, kanamicina, amikacina);

Di recente sono comparsi organismi produttori di carbapenemasi (enzimi in grado di idrolizzare i carbapenemi) resistenti a tutti i singoli antibiotici disponibili; sono enterobatteri (klebsiella, ecc.) che causano infezioni sistemiche, polmonari e urinarie (comparsi prima in India e Pakistan e poi in Europa), dotati di un gene chiamato NDM-1 (“New-Delhi-Metallo”) che fa esprimere una proteina (metallo-beta-lattamasi) che respinge l’attacco di tutti gli antibiotici impiegati.

Ma perché assistiamo oggi a una così diffusa resistenza batterica agli antibiotici?

La principale causa è il sempre più ampio uso degli antibiotici nell’uomo e negli animali. È stato calcolato che negli Stati Uniti vengono prodotti annualmente oltre 30.000 tonnellate di antibiotici, la metà per impiego terapeutico nell’uomo (gran parte comunque con uso inappropriato) e la metà per la promozione della crescita degli animali e per il trattamento di alberi da frutto. Infatti vengono trattati con questi farmaci, e su larga scala, animali destinati ad entrare nella catena alimentare umana; batteri resistenti agli antibiotici sono frequentemente presenti nel tratto gastro-intestinale di gran parte di tali animali. Gli antibiotici vengono qui impiegati come promotori della crescita della produzione animale, nello intento di evitare le infezioni a rapida diffusione in allevamenti intensivi, con un gran numero di giovani animali, ristretti in aree limitate, e tutto ciò invece di migliorare le condizioni igieniche degli allevamenti.

È chiaro che tale massiccio uso degli antibiotici esercita una formidabile pressione selettiva per lo sviluppo di germi resistenti.

In alcune aree si impiegano antibiotici al posto dei pesticidi per la protezione di verdure e alberi da frutto. Tutti questi farmaci, impiegati per la protezione delle piante, si riversano nel suolo e passano nelle acque sotterranee, dove si possono selezionare germi resistenti (esempio Pseudomonas). Ricordiamo ancora che oggi, per molti prodotti OGM, si usano organismi appunto geneticamente modificati nei quali sono incorporati indicatori, basati su geni di resistenza per gli antibiotici (es. marker di resistenza a neomicina, o beta-lattamasi per ampicillina) e ciò per valutare se la modificazione genetica ha avuto successo; ingerendo tali cibi, questi geni potrebbero essere trasferiti in germi intestinali, che acquisirebbero così ulteriore resistenza.

Ricordiamo due altri concetti:

•si definisce “tolleranza” a un antibiotico il fenomeno per cui si determina azione batteriostatica a basse concentrazioni, ma per ottenere l’azione battericida necessitano concentrazioni elevatissime. Esempio: tolleranza di un germe alla penicillina se la MIC batteriostatica è < 0.1 mg/L e la MIC battericida è > 128 mg/L;

•si definisce “patogenicità indiretta” il fenomeno per cui un germe di per sé sensibile a un antibiotico può risultare resistente perché un’altra popolazione microbica presente nella sede dell’infezione produce enzimi che lo inattivano.

Come si effettua una terapia antibiotica ragionata: è indispensabile conoscere o presumere, in modo attendibile, quale sia il patogeno da combattere.

La terapia antibiotica può essere attuata con tre modalità:

1)terapia specifica, quando è accertata una precisa entità clinico-eziologica (es. TB);

2)terapia mirata, quando è disponibile il reperto microbiologico causale;

3)terapia ragionata, quando non si conosce il microbo causa della malattia, che però può essere definito in base all’anamnesi, alla sede dell’infezione e ai dati epidemiologici.

Per la terapia antibiotica “ragionata”, è pertanto necessario basarsi su tutti i dati clinici ed epidemiologici valutabili al momento della visita del malato. Non ci dimentichiamo quello che diceva il prof. W. Osler, grande clinico canadese, “ if you listen carefully to the patients they will tell you the diagnosis”.

È poi quasi sempre possibile, prima di prescrivere un antibiotico, effettuare alcune semplici e rapide indagini, che possono rivelarsi di estrema utilità per una diagnosi eziologia della malattia, come emocromo, VES, PCR, Procalcitonina e, in caso di impegno respiratorio, un esame batterioscopico dell’espettorato e una radiografia del torace.

Una volta che in base a tali elementi si raggiunge un ragionevole convincimento di quale sia il patogeno causale dell’infezione da trattare e in quale parte del corpo essa si sia sviluppata, si attua la terapia ottimale in base ai seguenti princìpi di efficacia e di prescrivibilità:

EFFICACIA: in una infezione batterica, l’antibiotico è efficace quando se ne riesce a ottenere, nella sede dell’infezione, una concentrazione maggiore della MIC in vitro, per entità e tempo necessari alla sua inibizione, tenendo contodelle caratteristiche farmacodinamiche della molecola impiegata, dell’eventuale resistenza del germe, della gravità della malattia e delle condizioni escretoria e immunitaria del paziente.

PRESCRIVIBILITà: a parità di efficacia, l’antibiotico da impiegare è quello con maggiore tollerabilità, minori effetti collaterali, minor costo.

Gli antibiotici a disposizione del medico sono numerosi; ne ricordiamo i principali:

•BETALATTAMINE

-penicillina, metic., ampic., amoxic. piperacillina;

-cefalosporine (cefamezina, cefuroxim, mefoxin, cefotaxim);

-ceftriaxone, ceftazidim, cefodizime, maxipime;

-carbapenemi (merop., imip., ertap., doripenem);

•MACROLIDI

-claritromicina, azitromicina, telitromicina o ketec;

•FLUORO-CHINOLONICI

-ciprofloxacina, ofloxacina, levofloxacina,

-moxifloxacina o avalox, prulifloxacina o keraflox;

•GLICOPEPTIDI (vancomicina, teicoplanina, dalbavancina);

•AMINO-GLICOSIDI (gentamicina, tobramicina, amikacina) TETRACICLINE (doxic., mi­nocic.), LINCOSAMIDI, LINEZOLID, STREP­TOGRAMINE, CAF, RIFAMPICINE;

•IMIDAZOLICI (metronidazolo), CO TRIMOXAZOLO, ecc.

È pertanto indispensabile che il medico, dei principali gruppi di antibiotici, conosca bene almeno le molecole che vuole impiegare in terapia, soprattutto per quanto riguarda:

1)lo spettro antibatterico (attività e MIC90 in vitro per Gram positivi, Gram negativi, anaerobi) nei riguardi dei germi abituali e di eventuali germi resistenti;

2)la capacità del farmaco di localizzarsi nelle varie sedi di infezione e, se necessario, nell’ambiente intracellulare;

3)le vie e le dosi più idonee (quantità e intervalli) da somministrare, per far raggiungere, nella sede delle infezioni, concentrazioni efficaci (superiori alla MIC in vitro, tenendo conto anche della Farmacodinamica della molecola);

4)se necessario, in relazione alla gravità della forma morbosa e all’eventuale deficit immunitario del paziente, saper scegliere il farmaco e la via di somministrazione più rapidamente efficaci;

5)infine, a parità di efficacia, tenere presente la via di eliminazione del farmaco, per escludere le molecole più tossiche per tale via.


LA FORMULA LEUCOCITARIA

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L’esame emocromocitometrico (emocromo, nel linguaggio comune medico e non medico) descrive il numero e la distribuzione di tutte le cellule che formano il sangue. Viene suddiviso in vari gruppi per le componenti di riferimento: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine, frazione liquida. In questa breve revisione dei parametri più significativi nella routine ci occuperemo soltanto dei globuli bianchi o leucociti.

A tutti, prima o poi, è capitato di recarsi in laboratorio per eseguire l’esame emocromo e di valutare il numero e la distribuzione dei globuli bianchi. Questo accade di solito quando il medico sospetta un’infezione o uno stato infiammatorio. I leucociti (dal greco λευκός, leukós „bianco“ e κύτος, kýtos „cellula“, „cavità“) ovvero i globuli bianchi hanno un ruolo essenziale nella nostra vita e possiedono un corredo di funzioni estremamente ampio e funzionalmente articolato. Di essi bisogna conoscere la quantità e il significato fisiologico.

La loro funzione principale consiste nel conservare l’integrità biologica dell’organismo grazie a meccanismi di difesa diretti contro patogeni di varia natura (virus, batteri, miceti, parassiti) e contro molecole o corpi estranei penetrati nell’organismo superando le barriere costituite dalla cute e dalle mucose.

Se partiamo da un semplice prelievo di sangue venoso e versiamo il sangue in una provetta possiamo vedere, dopo un certo tempo di centrifugazione ed evitando l’attivazione del coagulo, che le componenti liquide e cellulari del sangue si dividono in tre frazioni: i globuli rossi (circa il 45% del volume), il plasma (con acqua, proteine, sali, lipidi, glucosio e altri elementi, circa il 55%) e una piccola quantità (circa 1%), stratificata al di sopra della massa di globuli rossi, che raccoglie i globuli bianchi (bianchi non sono in verità, ma il loro insieme stratificato forma una specie di spessore biancastro).

Il termine generico leucociti comprende popolazioni cellulari assai differenti tra loro: il gruppo dei granulociti polimorfonucleati, distinti in:

•granulociti neutrofili;

•granulociti basofili;

•granulociti eosinofili;

e due insiemi di cellule prive delle caratteristiche granulazioni, che si chiamano agranulociti:

•monociti;

•linfociti (questi ulteriormente classificabili in diverse sottopopolazioni e con valore funzionale di grande importanza nella struttura e funzione del sistema immunitaria).

Quando si vogliono caratterizzare i globuli bianchi bisogna identificare due parametri essenziali:

il loro numero e la loro distribuzione per tipologia di cellule (sia come percentuale sia come valore per unità di volume). Si sottolinea che quando si fa riferimento al numero totale dei globuli bianchi in un millimetro cubo di sangue nel conteggio vengono calcolati tutti i tipi di globuli bianchi (neutrofili, eosinofili, basofili, linfociti, monociti). Questo dato, in prima approssimazione, serve a caratterizzare la presenza di infezioni e a stabilire se le difese naturali svolgono correttamente il loro compito.

I valori dei leucociti nel soggetto sano vanno da 4.500 a circa 9-10.000 per mmc.

•Un numero inferiore può essere la spia di una ridotta capacità dell’organismo di difendersi dalle malattie, oppure di una perdita o riduzione della capacità da parte del midollo osseo di generare nuove cellule.

•Un numero di leucociti più elevato della norma va sempre considerato con molta attenzione: può dare conferma di un processo infettivo in atto (verosimilmente, ma non sempre, sospettato dal medico in base ai sintomi del paziente) o di uno stato di intossicazione. Ma se i globuli bianchi salgono di molto come numero è lecito sospettare che si abbia un quadro leucemico.

Una conta leucocitaria al di sotto dei normali valori viene definita leucocitopenia, mentre un eccesso di leucociti di morfologia normale nel sangue periferico si definisce leucocitosi.

Quale è l’intervallo nel quale considerare i valori dei globuli bianchi nel soggetto normale?

I riferimenti standard sono così riassumibili:

•i granuloci neutrofili, nel soggetto adulto, sono tra il 50-55 e il 70%, vivono da 6-8 ore fino a 24-36; si riconoscono molto bene osservando un vetrino al microscopio in quanto assumono un fine colore rosa (talora più intenso) e hanno un nucleo polilobato;

•i granulociti eosinofili hanno un range di variabilità tra 1 e 4-5%, di solito sono bilobati, e hanno granuli di colore rosa/arancione; vivono fino a 12 giorni dopo essere stati immessi nel sangue dal midollo osseo;

•i granulociti basofili (con granuli di intenso colore blu) sono di solito al di sotto dell’uno per cento e hanno vita da poche ore al massimo due giorni;

•i monociti (8-10%) migrano dal sangue verso gli altri tessuti e si differenziano in specifici macrofagi e in cellule di Kupffer nel fegato; vivono da poche ore a due, tre giorni.

I linfociti (25-35%) sono cellule mononucleate con diametro di circa 7 micron e vivono anche anni. In realtà la popolazione dei linfociti ha assunto un grandissimo rilievo nella biologia del nostro organismo e la loro valutazione (numerica, morfologica e funzionale) ha rappresentato nel corso del XX secolo un capitolo fondamentale per conoscere la risposta immunitaria nelle sue più diverse articolazioni.

Per quanto premesso, la valutazione della formula leucocitaria di un soggetto adulto sano ha queste oscillazioni:

•granulociti neutrofili: 55-65%;

•granulociti eosinofili: 1-4%;

•granulociti basofili: 0-1%;

•monociti: 4-8%;

•linfociti: 25-35%.

Ma attenzione, i valori percentuali della così detta formula leucocitaria vanno sempre rapportati al valore dei globuli bianchi circolanti calcolati per millimetro cubo. Questa osservazione, ben si comprende, fornisce un dato informativo di alta significatività. Infatti, per esempio, un valore di globuli bianchi attorno ai 2.000 per mmc indica una significativa leucocitopenia per cui, se anche la distribuzione delle varie componenti rientra nella percentuale della norma, il dato è patologico e va studiato.

I granuli presenti all’interno dei granulociti neutrofili sono divisi in base alle loro caratteristiche e al loro contenuto: alcuni hanno gli enzimi necessari per la funzione antimicrobica, altri sono lisosomi contenenti idrolasi acide, lisozima, un fattore permeabilizzante, altri ancora contengono sostanze che idrolizzano la membrana basale e favoriscono la penetrazione delle cellule nel connettivo.

I granulociti neutrofili o polimorfonucleati neutrofili (PMN) rappresentano una popolazione cellulare con proprietà fagocitaria. Derivati dalla cellula staminale pluripotente del midollo osseo (promielocito => mielocito => neutrofilo) i polimorfonucleati svolgono un ruolo fondamentale nel controllo delle infezioni batteriche e fungine. Queste cellule tuttavia hanno un limitato potere battericida per cui è possibile che alcuni microrganismi riescano a sopravvivere all’azione litica, con la cronicizzazione di un processo infettivo. La loro emivita non supera nel sangue le 24-36 ore ed è pertanto necessaria una produzione quotidiana di 1010-1011 elementi maturi. In generale, in presenza di un’infezione acuta i neutrofili ematici aumentano in grande numero, e possono avere origine sia dalla riserva del così detto “compartimento marginato” sia dal midollo osseo (leucocitosi).

L’azione fagocitaria è il risultato di un insieme di eventi che mirano ad indirizzare il neutrofilo nella sede dell’invasione batterica. Questo processo si basa sull’arresto del flusso all’interno dei vasi (ruolo delle molecole di adesione), con superamento della barriera endoteliale grazie a un meccanismo di diapedesi. Nella sede dell’infezione si generano gli stimoli che indirizzano la cellula presso l’area di intervento (chemiotassi).

Il momento della fagocitosi è preceduto da un contatto (adesione) tra la parete del batterio e il PMN. Se i batteri risultano opsonizzati, cioè rivestiti da anticorpi (IgG) specifici e dalla frazione complementare C3b, l’inglobamento è più efficace. All’interno del citoplasma il fagosoma si fonde con i granuli generando la figura del fagolisosoma. Inizia ora il momento conclusivo con il killing del microrganismo ingerito.

Un gruppo cellulare scarsamente rappresentato nel sangue periferico, ma importante, è quello dei granulociti eosinofili (circa il 4%). Essi sono particolarmente efficaci nel controllo degli elminti (vermi) e svolgono un ruolo centrale in corso di infiammazione allergica. Anche gli eosinofili prendono origine dal midollo osseo grazie all’intervento di molecole differenziative. È possibile distinguere negli eosinofili due popolazioni cellulari: quella normodensa e l’ipodensa. Poiché l’ipodensità è propria degli eosinofili attivati, in condizioni normali la loro proporzione nel sangue periferico è inferiore all’8-10%. Nei granuli secondari degli eosinofili si raggruppano quattro importanti proteine cationiche: la proteina basica maggiore (MBP, Major Basic Protein), la proteina cationica eosinofila, la perossidasi eosinofila e una neurotossina.

Secondo un’interpretazione funzionale è probabile che la cellula eosinofila (così definita perché i granuli presentano una potente affinità per i coloranti acidi) sia evoluta per il controllo dei parassiti voluminosi, come sono gli elminti (vermi), che non possono essere aggrediti nel citoplasma. Ne consegue che non potendo questi parassiti essere fagocitati, la finalità del loro controllo può esplicarsi con la liberazione di molecole citotossiche nell’ambiente extracellulare solo al di fuori del citoplasma. Tra le caratteristiche degli eosinofili si ricorda come essi siano dotati in superficie di recettori per il C3b. Infatti la sequenza degli eventi, almeno in alcune condizioni, parte dalla presenza sugli elminti della frazione C3b. Questo rivestimento o involucro esterno permette agli eosinofili di aderire sull’agente aggressore (essendo la superficie cellulare dotata di recettori per il C3b) e di attivare la risposta cellulare con la liberazione delle sostanze in grado di danneggiare il parassita.

Le cellule più piccole tra i granulociti sono i basofili. Essi hanno un diametro di circa 6 micron e in condizioni fisiologiche si trovano nel sangue periferico nell’ordine inferiore all’uno per cento. Presentano sulla loro membrana recettori ad alta affinità per le molecole di IgE e possiedono granuli intracitoplasmatici ricchi di istamina. In generale il nucleo appare multilobato e la membrana del citoplasma è piuttosto liscia, con alcuni ripiegamenti.

Quando si verifica un processo infiammatorio i basofili tendono ad accumularsi nei tessuti soprattutto in condizioni di ipersensibilità (per esempio in corso di rinocongiuntivite allergica). I granulociti basofili sono associati all’inizio dei processi infiammatori, hanno recettori per una porzione degli anticorpi nota come Fc e grazie a questa struttura le immunoglobuline (anticorpi) si legano ai recettori presenti sulla membrana dei basofili. Nell’interazione con gli antigeni viene liberata istamina e questo fenomeno può causare una reazione anafilattica in grado di indurre un quadro clinico di shock.

I monociti (leucociti agranulociti) rappresentano fino a 8-10% dei leucociti totali e sono cellule abbastanza voluminose (definite anche come macrofagi, per cui si usa il termine monociti/macrofagi). Il loro nucleo è piuttosto voluminoso e può ricordare una figura tra il fagiolo e il ferro di cavallo. I monociti circolano nel sangue e quando superano la barriera degli endoteli assumono la denominazione di macrofagi (nei tessuti). La funzione dei monociti si espleta essenzialmente come macrofagica con potente capacità fagocitaria in grado di inglobare materiale estraneo. I monociti/macrofagi svolgono una funzione importante cooperando con i linfociti dopo aver elaborato le molecole estranee che hanno inglobato (producono citochine): hanno il compito importante di presentare in modo adeguato gli antigeni (viene definito antigene una sostanza che può provocare una risposta nel sistema immunitario) ad alcune particolari cellule linfocitarie.

La popolazione dei linfociti rappresenta un capitolo particolare nella valutazione della formula leucocitaria. Osservando un preparato al microscopio ottico le sottopopolazioni linfocitarie non possono essere distinte fra loro su base di caratteristiche ben definite. A riposo ogni cellula si presenta con un nucleo che occupa quasi completamente lo spazio citoplasmatico, il quale forma un esiguo rivestimento al di sotto della membrana cellulare.

Nel sangue circolante dell’adulto i linfociti rappresentano, come già premesso, circa il 20-30% della popolazione dei globuli bianchi; in età pediatrica la loro percentuale è più alta. Il ruolo del linfocita consiste nel riconoscimento specifico di una sostanza estranea (antigene). Utilizzando opportuni metodi di laboratorio (anticorpi monoclonali e test funzionali) si differenziano le sottopopolazioni linfocitarie responsabili della risposta immunitaria.

Il numero dei linfociti nel nostro organismo ha ordine di grandezza fra 1010 e 1012. I linfociti (distinti in T e B) che ancora non hanno incontrato il proprio antigene sono funzionalmente quiescenti e possiedono dimensioni ridotte (non superiori a un diametro di 6-7 micron). Dopo l’incontro con l’antigene la morfologia cellulare cambia radicalmente e si osserva un ingrandimento con forte crescita del volume dando luogo alla figura del linfoblasto. Da questo stadio, per proliferazione e differenziazione, si originano le cellule effettrici e quelle dotate di memoria immunologica.

I precursori dei linfociti, come avviene per gli altri globuli bianchi, si trovano nel midollo osseo. Essi però hanno destini diversi: alcuni linfociti maturano completamente all’interno del midollo osseo (linfociti B, che stimolati si trasformano in plasmacellule e producono anticorpi) mentre altri precursori devono albergare nel timo e quando fuoriescono da questo organo si definiscono linfociti T (per l’appunto, derivati dal timo).

In ambito funzionale i T sono distinti come helper o come linfociti citotossici (CTL) e per convenzione si associa alla caratteristica helper una struttura di membrana identificata con la sigla CD4, mentre la sigla CD8 è associata alle cellule T citotossiche. I Thelper sono inoltre raggruppati in TH1 (regolatori della risposta cellulo-mediata a carattere infiammatorio) e TH2 (che producono citochine in grado di stimolare la via linfocitaria B e pertanto agiscono sulla produzione di anticorpi).

Riferimenti pratici

Leucocitosi

L’aumento dei globuli bianchi va caratterizzato in base al tipo di popolazione cellulare descritta. Per esempio una leucocitosi neutrofila (anche neutrofilia) è causata da infezioni batteriche acute, ma può associarsi anche a processi infiammatori non infettivi o all’infarto del miocardio. Un aumento degli eosinofili si verifica nelle allergie, ma anche in neoplasie di varia origine (cutanee, linfomi); anche le infezioni parassitarie possono indurre un aumento dei granulociti eosinofili (eosinofilia). Assai raro è l’incremento dei basofili: se aumentano in modo consistente può essere sospettata una forma di leucemia. I monociti aumentano in alcune malattie infettive (per esempio la tubercolosi), ma sono associabili a forme virali, a malattie infiammatorie croniche e a sindromi autoimmuni. I linfociti hanno un incremento numerico (linfocitosi) in corso di alcune malattie batteriche (la stessa tubercolosi), nella mononucleosi infettiva, in diverse forme virali. Ovviamente sono importanti in corso di leucemia linfatica e in corso di linfomi.

Leucocitopenia

Per leucocitopenia si intende una diminuzione del numero dei globuli bianchi al di sotto di 4.000 cellule/mm³; con questo termine si esprime una diminuzione leucocitaria generalizzata e non si fa distinzione in merito alle varie popolazioni leucocitarie che risultano diminuite. Nel linguaggio comune si usa il termine più diffuso di leucopenia. Pur non entrando in merito a dettagli strettamente medici alcuni concetti base devono essere sottolineati:

•una leucocitopenia può essere causata da una ridotta produzione da parte del midollo osseo oppure da un’aumentata distruzione in periferia;

•il difetto della produzione da parte del midollo può anche dipendere da un arresto nella mobilitazione delle cellule che dal compartimento midollare vanno verso il sangue;

•alcuni fenomeni autoimmuni possono distruggere i globuli bianchi;

•se calcoliamo la popolazione dei granulociti neutrofili in corso di un loro decremento numerico dobbiamo considerare che la neutropenia è definita grave o severa quando i neutrofili sono meno di 500 per microlitro; il rischio di infezione aumenta e il paziente necessita di particolare attenzione con trattamento antibiotico e antifungino; in casi gravi (neutrofili meno di 200/microlitro) si usa l’espressione di agranulocitosi, condizione clinica che può avere esiti mortali;

•un particolare valore assume la linfocitopenia: la linfocitopenia o linfopenia viene definita quando il numero di linfociti nell’adulto è inferiore a 1.000 cellule per mmc e, in età pediatrica, quando le cellule sono inferiori a 2.500 per mmc; con l’epidemia da virus HIV (malattia da HIV), i linfociti hanno assunto un grande significato prognostico e una loro sottopopolazione (T helper o linfociti CD4+) è importante per gestire la terapia antiretrovirale e per monitorizzare nel tempo l’andamento della risposta immunitaria; se i linfociti T CD4+ (cellule che regolano diverse funzioni anche di altre componenti cellulari) sono al di sotto dei 200/mmc il paziente è a grave rischio di infezioni (classificazione di AIDS in forma conclamata).


UN CASO CLINICO: SINDROME PARANEOPLASTICA?

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Donna con periodica dolenzia anale e minute rettorragie alle quali la paziente, un po’ confusa, non ha mai dato peso. Varici arto inferiore sinistro. Diagnosticato “adenocarcinoma ano-rettale infiltrante”, sanguinante, con anemia ipocromica. Rettoscopia: nel retto a monte del canale anale, vasta formazione vegetante congesta, friabile, facilmente sanguinante.

TC torace e addome: metastasi multiple di polmoni e fegato, carcinosi peritoneale con affastellamento delle anse intestinali. Rilevato poi alla palpazione piccolo linfonodo duro inguinale sinistro rapidamente ingravescente, che dopo 5 mesi con l’esame ecografico arriva a un diametro di cm 3,6. Nel frattempo progressiva tumefazione dell’arto inferiore sinistro. Ecocolordoppler venoso: poplitea incontinente con reflusso, cross safeno-femorale incontinente, safena interna accessoria di coscia incontinente.

Osservazione. Considerando che la flebolinfostasi dell’arto inferiore e l’ingrossamento del linfonodo inguinale stanno progressivamente aumentando, si deve pensare che la metastasi carcinomatosa del linfonodo si stia estendendo all’adiacente vena femorale, compromettendo così il deflusso ematico e linfatico. Non si tratta quindi di sindrome paraneoplastica.

All’opposto, nelle sindromi paraneoplastiche la patogenesi è completamente diversa: dal tessuto tumorale vengono prodotte sostanze, più o meno note, le quali – entrando nel circolo ematico – si diffondono a tutti gli organi, provocando i sintomi più disparati a seconda della sede colpita.

Sul piano clinico, tra i più frequenti meccanismi al riguardo, figurano:

a)produzione di anticorpi antineoplasia: cellule neoplastiche con aggregati piastrinici che coinvolgono le cellule ematiche;

b)adenocarcinomi secernenti mucina: producono una serin-proteasi che attiva il fattore x della coagulazione;

c)carcinomi mammari (40%), plasmocitoma (20%), carcinomi bronchiali (12%), tutti secernenti un fattore osteoclastico che produce un paratormone atipico: consegue ipercalcemia e ipercoagulabilità ematica.

Un caso al riguardo di vera sindrome paraneoplastica, di osservazione personale, molto significativo, è stato il seguente. Il primissimo segno di morbo di Hodgkin in un paziente di 55 anni è stata una lievissima microflebite manifestatasi con un sottilissimo cordoncino infiammato, lungo circa 1cm, alla spalla.

È chiaro che in questo caso non vi è stata alcuna contiguità anatomica tra questa piccola vena sottocutanea e il tessuto neoplastico. Si può pertanto concludere che questo paziente ha presentato una vera “flebite paraneoplastica”.


UNA DIAGNOSI AD ALTA TECNOLOGIA PER LE ALLERGIE PIU’ COMUNI

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La diagnosi di allergia 

L’allergologia è una branca della Medicina che si occupa della prevenzione, della diagnosi e del trattamento delle allergie. Con il termine di allergia si identifica un insieme di patologie caratterizzate da ipersensibilità verso determinate sostanze. All’origine del termine comunemente impiegato, talora con errori interpretativi nel linguaggio comune, ci sono i lavori di C. von Pirquet e B. Schick, all’inizio del XX secolo. In sostanza von Pirquet e Schick osservarono come nel corso della risposta immunitaria si potessero sviluppare risposte “alterate”, dannose, quando veniva inoculato un siero eterologo in un paziente e si praticava la vaccinazione per il vaiolo con finalità di terapia.

La parola allergia ha origine dai vocaboli greco ἄλλος, che vuole dire “altro”, ed ἔργον che significa “lavoro”. Ovviamente molte interpretazioni di quegli anni erano approssimative data la limitazione delle conoscenze e con la parola ipersensibilità si intendeva un raggruppamento eterogeneo delle allergie: si riteneva infatti che un po’ tutte le manifestazioni allergiche fossero riconducibili a una risposta “sbagliata” del sistema immunitario. Con il graduale progredire delle conoscenze su struttura e funzione del sistema immunitario venne in chiara evidenza che vari meccanismi erano implicati nella risposta di tipo allergico. Dobbiamo arrivare ai lavori di P. Gell e R. Coombs, dei primi anni Sessanta del Novecento, perché venisse ben organizzato l’inquadramento dei diversi meccanismi alla base delle immunoreazioni patogene. Venne proposta una classificazione che prevede quattro tipi di reazioni di ipersensibilità, conosciute come immunoreazioni patogene, distinte in quattro raggruppamenti: da I a IV. Con questa classificazione, successivamente ampliata e in parte modificata, il termine “allergia” fu limitato alla sola ipersensibilità di tipo I. Secondo la definizione di von Pirquet, «allergia» significava infatti “reazione modificata” del sistema immunitario, e il termine poteva applicarsi tanto alla malattia da siero classificata poi ipersensibilità di tipo III (mediata da complessi antigene-anticorpo), quanto alla reazione alla tubercolina (classificata come ipersensibilità di tipo IV cellulo-mediata, o ritardata).

Gli anticorpi responsabili delle reazioni allergiche sono le “IgE“ (definite anche “reagine”). Le IgE sono abitualmente presenti in tutti gli individui sani e hanno un ruolo importante nella difesa contro alcuni patogeni, come si verifica per le elmintiasi. Tuttavia nei soggetti geneticamente predisposti all’allergia, per complessi meccanismi di alterata regolazione, la sintesi di IgE nei confronti di alcune sostanze allergizzanti aumenta in modo significativo. Il dosaggio nel sangue si esegue con un test chiamato PRIST (Paper Radio Immuno Sorbent Test). Un livello elevato di IgE nel sangue orienta verso allergia ma può essere trovato anche in soggetti che non sono allergici. Il test fondamentale per la diagnosi di allergia è il test cutaneo “prick-test“. Per eseguire questo test (“in vivo”) si pone una minima quantità di allergene (sostanza verso la quale è possibile che si sia manifestata la reazione allergica) sulla cute lievemente scarificata del soggetto in esame (grazie all’impiego di lancette “calibrate” con una punta molto piccola). Se nel sangue del soggetto allergico sono presenti anticorpi IgE attivi contro un determinato allergene si osserverà una reazione di edema localizzato con prurito (pomfo) in corrispondenza della piccola area cutanea dove è stata posta la sostanza alla quale è allergico (o si suppone sia allergico) il paziente. Un’altra indagine utilizzata è il RAST (Radio Allergo Sorbent Test) che consente di identificare “in vitro” le IgE “specifiche” verso un determinato allergene.

I sintomi dell’allergia di tipo I sono abbastanza facilmente identificabili. L’allergia può interessare tutti, a qualsiasi età e senza differenze di sesso; si manifesta a volte all’apparato gastroenterico con nausea, vomito, diarrea (rara e non necessariamente stagionale), a volte sulla cute, a volte a livello respiratorio. Le manifestazioni più fastidiose e frequenti, ben conosciute dalle persone interessate e dai medici, possono essere riassunte come segue:

• sintomi nasali e respiratori: starnuti frequenti, anche “a raffica”, secrezioni acquose nasali, naso chiuso, prurito. senso di mancanza d’aria, tosse di origine irritativa, respiro affannoso e accorciato;

• sintomi oculari (oculorinite): prurito, arrossamento, gonfiore, lacrimazione, fastidio alla luce (fotofobia);

• sintomi cutanei: prurito, edemi, arrossamenti (orticaria).

I sintomi possono presentarsi con caratteri limitati, possono avere stagionalità (pollinosi, fioritura di piante) o essere associati in modo vario. Una delle complicazioni dell’allergia a livello respiratorio consiste nell’instaurarsi dello stato asmatico, realmente limitativo per la qualità di vita del paziente e talora condizione che può mettere a rischio la vita stessa.

Test per il dosaggio delle IgE su microarray ISAC.

Molte sono le sostanze in grado di provocare allergia e alcune di esse hanno una reattività crociata, condizionando il rischio di manifestazioni cliniche anche gravi e causando obiettive difficoltà diagnostiche. Per ovviare alla difficoltà diagnostica di individuare lo specifico allergene con test in vitro è disponibile in laboratorio un test particolarmente avanzato per identificare le IgE. Il test è noto come ImmunoCAP- ISAC (Phadia, Uppsala – Svezia) e permette la definizione del profilo di sensibilizzazione di ogni singolo soggetto in modo molto dettagliato, non ottenibile con i test cutanei (skin test) o con gli altri di sistemi noti di valutazione delle IgE: per il dosaggio delle IgE con metodo ISAC vengono utilizzate molecole altamente purificate, sia naturali sia ricombinanti.

ImmunoCAP ISAC IgE permette di evidenziare contemporaneamente, partendo da una goccia di siero o plasma del soggetto in esame, la presenza di IgE dirette contro numerosi determinanti allergenici che vengono fissati su una superficie solida precostituita. La metodica, di alto livello tecnologico e già impiegabile nei laboratori più attrezzati, è un nuovo approccio, realmente innovativo, basato sull’impiego di biochip per l’analisi semi-quantitativa delle IgE. Con l’attuale kit si possono valutare fino a 112 componenti allergeniche. In pratica il test consente di effettuare un vero e proprio screening a tutto campo, rapido ed efficace, per la ricerca di anticorpi IgE rivolti verso un’ampia gamma di molecole potenzialmente causa della sensibilizzazione allergica e, dato di grande rilievo clinico, il test permette di riconoscere eventuali allergie dovute a reattività crociate, ovvero presenti verso componenti molecolari che si possono trovare in vari composti, anche molto diversi fra loro (per esempio allergeni alimentari e sostanze allergeniche inalanti).

ImmunoCAP ISAC IgE è un test immunologico in fase solida. Le frazioni molecolari (allergeni) sono fissate in formato microarray su un substrato solido. I “protein microarray” (detti anche biochip, proteinchip) sono utilizzati nelle applicazioni biomediche per determinare la presenza e/o la quantità di proteine in campioni biologici, ad esempio nel sangue. In italiano array può essere semplicemente tradotto con il termine “raggruppamento”. E di un vero e proprio micro-raggruppamento di allergeni si tratta. Le componenti allergeniche, immobilizzate sul substrato solido, vengono incubate con campioni di plasma o siero umano in esame. Il legame tra gli anticorpi IgE specifici e le componenti allergeniche legate alla fase solida, viene rilevato grazie a un anticorpo secondario anti-IgE umane marcato con un composto fluorescente.

Una scansione con un appropriato scanner per microarray consente l’acquisizione delle immagini. Il programma MIA (Phadia – Microarray Image Analysis Software) permette poi l’analisi dei risultati e la determinazione delle ISU (ISAC Standardized Units) per IgE specifiche (ISU). Il sistema ISU può definire, con questo approccio, una valutazione semiquantitativa. Per l’esecuzione del test è sufficiente una quantità minima di plasma (20-30 microlitri). La determinazione semiquantitativa, basata sull fluorescenza, definisce un range di risposta da 0,3 a 100 ISU-E. La procedura completa prevede 4 ore.

Nel panel del microarray si hanno 112 allergeni con la distribuzione riportata nell’immagine Phadia (fig. 1).
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La risposta al test in unità ISU-E è semplice e di prima evidenza. Il sistema standardizzato prevede 4 livelli:

•< 0,3: test negativo (non esiste nel sangue esaminato nessuna IgE specifica verso gli allergeni);

•<0,3 – 0,9: positività bassa;

•<1,0 – 14,9: positività moderata-alta;

•≥ 15: positività molto alta.

Per facilitare la lettura viene fornito, nel foglio della risposta, un gradiente cromatico di riferimento vicino a ciascun valore. Questa modalità di rappresentazione permette, a colpo d’occhio, di comprendere il livello di positività (aspetto semiquantitativo) o la negatività della risposta (fig. 2).

Un esempio pratico:  profiline e cross-reattività

Le profiline sono proteine molto diffuse in natura e appartengono a strutture allergeniche anche non correlate filogeneticamente. Si trovano sostanzialmente in tutte le cellule nucleate e il loro ruolo consiste nell’agire durante la polimerizzazione di filamenti actinici, elementi essenziali nella struttura del citoscheletro. Data l’importanza funzionale delle profiline le sequenze della struttura primaria sono ben conservate attraverso le specie vegetali anche evoluzionisticamente divergenti, con un 80% di omologia e una sorprendente somiglianza anche nella struttura secondaria e terziaria.

Verso la fine del ventesimo secolo, nei primi anni Novanta, alcuni ricercatori osservarono che le IgE specifiche di soggetti con allergia verso il polline di betulla potevano reagire con la profilina presente in granuli di polline e con reattività crociata con altre profiline distribuite in alimenti di origine vegetale. In questo modo venne chiaramente dimostrato come le profiline potevano essere responsabili delle così dette sensibilizzazioni crociate tra pollini e alimenti di origine vegetale. Viene coniato da questo momento il termine di panallergene. Ora è evidente che la sensibilizzazione verso il panallergene profilina fornisce risultati crociati che rendono difficile, se non impossibile, arrivare a una diagnosi ricorrendo ai soli test cutanei. Sono evidenti le implicazioni pratiche, di natura profilattica e terapeutica. Per esempio l’adozione di un trattamento iposensibilizzante (immunoterapia specifica, il così detto “vaccino”) dovrebbe essere programmato dallo specialista con l’indagine di marker allergenici specifici. Ecco perché un test con ISAC è di grande aiuto: non ha invasività (è sufficiente una quantità minima di prelievo ematico), non risulta condizionato da terapie farmacologiche, è un’indagine ottimale per la ricerca di sensibilizzazione verso allergeni frequenti sia di tipo inalatorio sia alimentare. Poiché, inoltre, vengono utilizzati solo allergeni con struttura molecolare del componente (ricombinanti o antigeni naturali purificati) la specificità è garantita.

Un esempio pratico: 

i soggetti che hanno allergia al polline di betulla sono assai spesso allergici ad alimenti che hanno sostanze simili (mele, sedano, carote).

Si ha una vera e propria sensibilizzazione crociata “occulta”, celata fra componenti correlati che però hanno diversa provenienza: questa sensibilizzazione crociata può essere messa in evidenza con un solo passaggio “diagnostico” nel sistema microarray che consente il confronto di numerose molecole nello stesso tempo.

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