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DB-02-2012

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SOMMARIO

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L’EDITORIALE
Francesco Leone

TENOSINOVITE VILLO-NODULARE PIGMENTOSA ASSOCIATA AD ARTRITE REUMATOIDE
R. Zorzin, Silvana Francipane

MIXING  
MIXING Alessandro Ciammaichella

A TUTTO CAMPO
Quando (quanto) siamo normali
Giuseppe Luzi

IL PUNTO
Tiroide e gravidanza
Stefano Gaudino

LEGGERE LE ANALISI
Il protidogramma elettroforetico
Giuseppe Luzi


CAPIRE LE ANALISI

Quando il medico, dopo una visita, decide di prescrivere le analisi, il paziente è abituato ormai a leggere, forse distrattamente, i valori che verranno riportati sulle tabelle e sulle pagine con bella carta intestata dei vari laboratori. Vicino al valore riportato è scritto di solito il range dei valori “normali”.

L’approccio dell’utente è semplice: se i risultati che riguardano i parametri esaminati sono nella norma, vuole dire che tutto è a posto. Qualche dubbio si insinua se il lettore vede i risultati nella zona di confine, vicino ai valori di riferimento bassi o alti. Ancora di più l’incertezza emerge quando, magari di poco, il parametro che viene controllato risulta fuori scala. Si torna dal medico e si aspetta il commento. Ma quanti conoscono il “curriculum” di ogni analisi?
In passato, un passato molto lontano, si dice che il medico “meno bravo” fosse quello che nei reparti ospedalieri veniva collocato a leggere i campioni delle urine o a fare quelle poche analisi un tempo disponibili. Tutto era clinica: segni, sintomi, anatomia macroscopica, morfologia e (diciamolo) anche un po’ di chiacchiere. Così evolve la scienza, ogni disciplina, anche per… tentativi.

Ai nostri giorni il laboratorio è parte integrante di ogni valutazione clinica e lo studio dei parametri biologici permette di fare diagnosi precoci, di confermare sospetti diagnostici, di controllare l’andamento di un processo morboso già noto. La diagnostica di laboratorio utilizza complessi meccanismi e procedure che devono basarsi su adeguati sistemi di controllo (qualità, specificità, sensibilità).

In particolare, soprattutto per le analisi così dette di routine, si ricorre a strumentazione automatica e quindi lo specialista medico e/o il tecnico di laboratorio debbono effettuare un’accurata sorveglianza sull’intero ciclo di lavoro che per ogni analisi prevede diversi passaggi: controlli interni al sistema, validazione con campioni di riferimento, eventuale ripetizione dei test se emergono elementi di non congruenza con la metodica usata.
Soffermarci su questi aspetti e sottolineare come il laboratorio sia la risultante di varie discipline convergenti (fisica, chimica, ingegneria, biologia cellulare, chimica/fisica, immunologia, etc.) è importante sia per l’utente che fruisce del risultato sia per il medico che acquisisce il valore, con consapevolezza ovviamente professionale rispetto all’utente.

Da questo numero (pag. 37) iniziamo a esaminare alcuni dei parametri noti nella pratica della diagnostica di laboratorio per rendere più agevole la lettura dell’indagine sia all’utente, sia al medico non specialista di laboratorio, bravo clinico e competente professionista ma talora non adeguatamente infor­mato sulla dinamica delle procedure che riguardano il risultato atteso per il parametro in valutazione. Questo consentirà, entro certi limiti, di fare anche un po’ di storia della medicina e fornirà, ci si augura, uno stimolo efficace per un maggiore interesse sulla materia.


TENOSINOVITE VILLO-NODULARE PIGMENTOSA ASSOCIATA AD ARTRITE REUMATOIDE

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Fig. 1 – Artrite reumatoide. Evidente tumefazione delle articolazioni interfalangee prossimali. Deviazione assiale del III dito della mano destra a livello dell’articolazione interfalangea prossimale. Piccolo nodulo in prossimità dell’articolazione interfalangea prossimale del II dito della mano sinistra.

Nell’artrite reumatoide (AR) le lesioni granulomatose sinoviali a carico delle articolazioni si accompagnano ad analoghe manifestazioni a carico delle guaine tendinee e a noduli reumatoidi. Dette lesioni sono l’espressione di una stimolazione sistemica di natura autoimmunitaria.
La tenosinovite villo-nodulare pigmentosa (TSVNP) si differenzia però dalle altre sinoviti infiammatorie per la caratteristica istologica della presenza di depositi di emosiderina in uno stroma di fibre reticolari e collagene, cellule giganti multinucleate e cellule schiumose (1).

La TSVNP può coesistere con l’osteoartrosi delle grandi (2, 3) e piccole articolazioni e l’artrite psoriasica (4). Una TSVNP a carattere destruente è stata descritta a carico di entrambi i polsi da A.U. Jamieson e coll. (5). La diagnosi di TSVNP può porre seri problemi di interpretazione della sua natura quando si associa alla AR, simulando un’estroflessione della sinovite articolare oppure la presenza di un nodulo (fig. 1).
Il caso presentato in questa sede è quello di una donna di 63 anni, affetta da circa venti anni da

Fig. 2 – Stesso caso della fig. 1: anchilosi completa delle ossa del carpo bilateralmente, evidenti erosioni delle articolazioni interfalangee prossimali e di alcune metacarpofalangee. Rima radicarpica scomparsa bilateralmente. Coesistono noduli di Heberden e rizoartrosi.

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AR, con grave impegno poliarticolare, in particolare delle articolazioni metacarpofalangee, interfalangee prossimali e anchilosi delle ossa del carpo bilateralmente (fig. 2). La paziente ha notato l’insorgenza a carico del secondo dito della mano sinistra di una formazione nodulare, morbida, non dolente, in discontinuità con l’articolazione interfalangea contigua.

Nel dubbio della presenza di un “nodulo reumatoide”, condizionante una certa gravità di malattia, si è resa indispensabile l’asportazione chirurgica di detta formazione per l’esame istologico. Dal punto di vista istologico è stata chiarita l’ipotesi di una TSVNP, grazie all’impiego della colorazione di Perls, che ha dimostrato la presenza di depositi di emosiderina (fig. 3).

Fig. 3 – Tenosinovite villo-nodulare pigmentosa. L’esame istologico della neoformazione sottocutanea della mano sinistra evidenzia uno stroma connettivale con abbondante deposizione di pigmento ferrico (emosiderina). Metodica istochimica del Perls (10 x; 40 x).

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Il caso conferma la sede prediletta della TSVNP a carico delle mani, secondo, e terzo dito, la maggiore incidenza nel sesso femminile, mentre si dissocia per l’insorgenza in età avanzata. Non comune l’associazione con l’AR. La segnalazione sull’utilità di RM (6), TC e spettrofotometria dell’essudato (7) nella diagnosi differenziale delle varie sinoviti ipertrofiche e della stessa TSVNP presenta limiti in rapporto alle dimensioni della sede da esaminare. Ne deriva che solo la biopsia della neoformazione localizzata può dirimere la diagnosi, come nel caso in oggetto.

Anche il nostro caso ripropone la problematica segnalata da A.U. Mertens e coll. nel 1993 (8): se la sinovite villo-nodulare pigmentosa o “tumore a cellule giganti” sia espressione di una vera e propria neoplasia o di una proliferazione reattiva infiammatoria.


MIXING

GLI ANTICHI ROMANI A TAVOLA

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I nostri antenati, al pari di quelli greci, avevano l’abitudine di mangiare reclinati su un fianco (motivo sconosciuto). È una posizione antifisiologica in quanto ostacola la deglutizione.

CARDIOVERSIONE NELLA FIBRILLAZIONE ATRIALE

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È di tre tipi: 1) farmacologica, al primo episodio: amiodarone, propafenone, flecainide; 2) elettrica trans toracica: se la fibrillazione atriale persiste; 3) endocavitaria con pace-maker.

PROGNOSI DA FIBRILLAZIONE ATRIALE
La fibrillazione atriale valvolare, per alterazione della mitrale, ha un rischio di ictus cinque volte più elevato della forma non valvolare: questa poi scompare più facilmente con i farmaci.

VIRUS EBOLA

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Causa di una febbre emorragica spesso letale, è così denominata dal nome di un affluente del fiume Congo, dove si è verificata la prima epidemia.

DANNI DA STATINE

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Il danno muscolare è il più frequente: viene liberata la mioglobina che passa nel sangue e quindi nelle urine a causa della miosite che, nelle forme più gravi, può determinare insufficienza renale acuta; nelle forme più leggere e più frequenti vi è la mialgia. Il danno renale, più raro e più grave, è assente con la fluvastatina.

LE GRANDI MENTITRICI
Tra le affezioni che sono più spesso scambiate per altre figurano connettivite mista, sindromi paraneoplastiche, porfiria epatica, feocromocitoma, epilessia, isterismo.

TROMBOSI VENOSA E TUMORI.
Tra le cause delle flebotrombosi non vi sono solo le neoplasie polmonari (sindromi paraneoplastiche), ma anche farmaci antitumorali, come il tamoxifene, usato per il cancro della mammella.

IPERTROFIA CONCENTRICA DEL VENTRICOLO SINISTRO.
È più grave di quella eccentrica: vi è aumentato ingresso di ioni calcio nei miociti, che favorisce le aritmie atriali e ventricolari. Il miocita ipertrofico diventa poi insufficiente. Sartani e ACE-inibitori sono i più efficaci.

CUORE E CERVELLO
Il “buon medico” sarebbe bene che cercasse di curare il cuore attraverso il cervello e di curare il cervello attraverso il cuore (un saggio anonimo).

ALLATTAMENTO AL SENO CONTROINDICATO

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In casi molto limitati il lattante va nutrito con latte in polvere: madre sieropositiva e/o curata con farmaci anti-AIDS, con uso di droghe, con chemio- o radioterapia ancora in corso.


QUANDO (QUANTO) SIAMO NORMALI

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Si dice comunemente: questo evento è normale. Va bene, ma come ci accordiamo con questo lemma intrigante? Sul vocabolario troviamo che è normale quello che è regolare, conforme alla regola o alla consuetudine. Ma sembra un po’ troppo generico se non impreciso. Sul vocabolario Treccani, on line, troviamo scritto meglio come segue.

Normalità: carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica, di un individuo, sia a manifestazioni e avvenimenti del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali, ecc.) più generali: n. di un comportamento, di una reazione; stanchezza fisica, mutamenti di umore, escursioni termiche, variazioni climatiche, oscillazioni di mercato, ecc. che rientrano nella (o escono dalla) normalità. In senso più astratto, condizione o situazione normale: vivere, restare nella n.; tornare alla n.; il ritorno alla n. dopo un periodo di disordini (nel linguaggio politico, l’espressione ritorno alla n. è spesso servita a mascherare un forzato, e talora sanguinoso, ristabilimento dell’ordine o comunque l’adozione di metodi repressivi).

Le cose vanno abbastanza bene ma non tanto. In Medicina quando si è normali? Un aiuto lo fornisce la matematica, o meglio, la statistica. Vediamo come. Navigando in internet e fermandoci “banalmente” su Wikipedia troviamo una discreta definizione, che ci riconduce meglio alla realtà, si tratta della definizione di distribuzione normale: “In teoria della probabilità la distribuzione normale, o di Gauss (o gaussiana) dal nome del matematico tedesco Carl Friederich Gauss, è una distribuzione di probabilità continua che è spesso usata come prima approssimazione per descrivere variabili casuali a valori reali che tendono a concentrarsi attorno a un singolo valore medio. Il grafico della funzione di densità di probabilità associata è a forma di campana, nota come Campana di Gauss (o anche come curva degli errori, curva a campana, ogiva).

La distribuzione normale è considerata il caso base delle distribuzioni di probabilità continue a causa del suo ruolo nel teorema del limite centrale. Più specificamente, assumendo certe condizioni, la somma di n variabili casuali con media e varianza finite tende a una distribuzione normale al tendere di n all’infinito. Grazie a questo teorema, la distribuzione normale si incontra spesso nelle applicazioni pratiche, venendo usata in statistica e nelle scienze naturali e sociali come un semplice modello per fenomeni complessi. La distribuzione normale dipende da due parametri, la media m e la varianza σs2; è indicata tradizionalmente con: N (m, s2)”.

Molti studenti, delle diverse facoltà, prima o poi incontrano la curva di Gauss. E la curva di Gauss è così importante che ha avuto anche successo grafico, come nell’immagine della banconota in marchi tedeschi di qualche anno fa.
Dobbiamo molto a Gauss, nella vita di tutti i giorni e nelle più semplici operazioni che compiamo. Carl Fiedrich Gauss era il figlio unico di genitori in modeste condizioni economiche.

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Nasce il 30/4/1777 a Brunswick (morirà il 23/2/1855 a Goettingen). Con notevoli capacità precoci in campo matematico presenterà una sua dissertazione sul teorema fondamentale dell’algebra a 22 anni (nel 1799). Due anni dopo vede la luce “Disquisitiones Arithmeticae” testo basilare per la teoria dei numeri. Il suo lavoro spazia dai numeri complessi all’astronomia, dall’elettromagnetismo al calcolo delle probabilità. È nell’ambito di questi studi che elabora la celeberrima “curva gaussiana”. È interessante ricordare che grazie a suoi studi sull’andamento dei mercati finanziari fu in grado di acquisire anche buone condizioni economiche. Per Gauss la matematica è la “regina delle scienze”.

Come entra la curva di Gauss nella vita di un medico? In Medicina (e nelle scienze correlate) è l’unico indice di prima approssimazione con il quale fare i conti per interpretare un fenomeno, osservare l’andamento di un processo morboso e, entro certi limiti, impostare il ragionamento per una diagnosi corretta. La curva gaussiana non è poi tanto semplice, come sembra suggerire la sua rappresentazione grafica: la così detta variabile casuale normale (la “gaussiana) è generata dalla funzione:

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e descrive il comportamento e l’entità degli errori di misurazione. La variabile normale è sicuramente una delle più importanti variabili casuali, ed è assai diffusa in statistica. Il nome “normale” prende origine dall’osservazione che molti fenomeni si distribuiscono con frequenze più elevate nei valori “centrali” e con frequenze progressivamente più piccole verso gli estremi della variabile considerata. Nelle discipline sperimentali, come in fisica, la curva viene anche definita “degli errori accidentali”, con riferimento al fatto che la distribuzione degli errori effettuati durante la misurazione ripetuta di una stessa grandezza si approssima piuttosto discretamente nell’andamento della gaussiana tipica.

Possiamo dire, con buona approssimazione, e con accettabile buon senso, che la curva di Gauss ci avvicina alla realtà, ma non troppo. Ecco quindi che essere “normali” è un po’ meno banale di quanto possa sembrare. Per esempio, tra i tanti possibili parametri, se vogliamo misurare l’altezza degli uomini appartenenti a una certa popolazione, vedremo che se prendiamo un buon numero di unità, 1.000-10.000 soggetti, avremo una curva a campana che si accentra attorno a un valore medio di circa 175 cm (in Italia), con una deviazione standard di una ventina di cm. In pratica, se vogliamo stare nei numeri, la maggior parte degli uomini (il 95%) ha un’altezza compresa tra 154-155 e 194-195 centimetri (più o meno, ma con buona approssimazione). Quindi un italiano che misura un metro e sessantacinque centimetri magari non è alto ma è abbastanza “nella norma”.

In Medicina questo problema è serio soprattutto se analizziamo alcuni dei parametri più comuni nei vari test di laboratorio, test che possono dare “false indicazioni” se interpretati con superficialità. Innanzi tutto uno dei punti pericolosi consiste nel considerare il campo di variazione (così detto range) con valore assoluto di “normalità”. Un altro aspetto, altrettanto pericoloso, riguarda la scarsa conoscenza della distribuzione di un parametro. Sotto questo profilo è assai pericoloso soffermarci sui valori così detti borderline. L’osservazione può valere per qualunque parametro: per esempio la glicemia. Se in un laboratorio si fissa un valore massimo di 110 mg/dl, e si osserva un risultato con 112 o di 116, possiamo dire che il soggetto è diabetico? Ovviamente no: ricorrendo alla gaussiana opportuna non è tanto significativo comprendere quanto un valore sia vicino all’andamento della popolazione studiata (si presume sana) ma è importante quanto se ne è discostato, talmente discostato da avere scarsissime probabilità di essere derivato da un individuo sano (almeno in quel momento, quando è stato effettuato il prelievo).

Nella pratica di laboratorio, pertanto, l’evidenza di valori limite (alti e bassi) che si discostino moderatamente dal range della norma non rappresenta necessariamente un dato patologico; i dati vanno interpretati con la consulenza del proprio medico e in relazione al dato clinico.


TIROIDE E GRAVIDANZA

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Le malattie della tiroide costituiscono le endocrinopatie di maggior riscontro in gravidanza e dopo il parto.
La frequenza di donne in gravidanza che presentano tireopatie conclamate o subcliniche, spesso non idoneamente controllate e pertanto potenzialmente dannose per il feto è notevolmente aumentata.
Quando viene sospettata l’insorgenza di una tireopatia in gravidanza è pertanto necessario intraprendere con celerità l’iter clinico-diagnostico ed eventualmente terapeutico adeguato onde evitare complicanze alla madre ed effetti dannosi al feto dovuti al passaggio transplacentare di anormali quantità di ormoni materni, anticorpi anti-recettore del TSH o di farmaci tireostatici.
Negli anni più recenti sono stati dedicati numerosi studi alla comprensione dei meccanismi che regolano il rapporto tiroide-gravidanza e sono state elaborate linee guida che stabiliscono condotte molto precise; tuttavia molti aspetti rimangono ancora non completamente chiariti e permangono ancora incertezze e controversie.

INTRODUZIONE
La gravidanza si accompagna a profonde modificazioni dell’equilibrio endocrino della madre e del feto: esse avvengono in maniera autonoma, si influenzano reciprocamente soprattutto attraverso la placenta e sono determinate dalla necessità di adattamento dell’organismo della gestante a quello del feto per garantirne il corretto sviluppo (fig. 1).
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  1. FISIOLOGIA MATERNA

In gravidanza la tiroide è una delle ghiandole maggiormente sottoposte a un aumentato carico funzionale dovuto al variare di numerosi fattori che agiscono indipendentemente e/o in cooperazione fra di loro con l’effetto di incrementare la richiesta di ormoni tiroidei del pool plasmatico e quindi aumentare la loro disponibilità tissutale:

Aumento della concentrazione sierica della globulina legante la tiroxina (TBG)
Rappresenta sicuramente il fattore più importante.È determinato dall’azione che gli estrogeni secreti dalla placenta esercitano a carico del fegato aumentando la sua sintesi e riducendo il suo catabolismo.
La sua concentrazione nel siero inizia ad aumentare intorno al 20° giorno dall’ovulazione, raggiunge il massimo durante la seconda metà della gravidanza per mantenersi costante sino al parto, per poi diminuire nell’arco di circa 5 settimane.
L’importanza di tale evento è data dal fatto che fisiologicamente l’ormone biologicamente attivo è quello libero e la TBG lega circa il 75% della T4 e l’80% della T3; pertanto ogni variazione della concentrazione di TBG comporta una variazione di quella degli ormoni totali e delle frazioni libere.
Il suo aumento determina l’aumento delle concentrazioni di ormoni tiroidei totali e una riduzione delle frazioni libere: ciò comporta una aumentata sintesi di TSH da parte dell’ipofisi che a sua volta determina una aumentata increzione di ormoni da parte della tiroide al fine di mantenere l’eutiroidismo.

Aumento dell’attività desiodasica
Le desiodasi sono enzimi che regolano il metabolismo periferico degli ormoni tiroidei.
Sono di tre tipi:

  1. il tipo I, che non si modifica in gravidanza, determina la conversione di T4 in T3;
  2. il tipo II determina la formazione di FT3, che viene utilizzato dal feto;
  3. il tipo III ha la proprietà di inattivare il T4 trasformandolo in T3 reverse che è un ormone inattivo.

Il tipo II ma soprattutto il tipo III sono secreti dalla placenta e pertanto con l’aumentare del volume placentare, che avviene nella seconda fase della gravidanza, cresce significativamente l’attività questi enzimi.
Ciò comporta un aumentato catabolismo della T4 che necessariamente deve essere compensato da un’aumentata sintesi di ormoni da parte della tiroide mediante l’attivazione dello stesso circuito di controregolazione ipotalamo-ipofisario precedentemente descritto.
È stato valutato che il sovraccarico funzionale della tiroide che si verifica durante la gravidanza oscilla tra il 40 ed il 60%: ciò è stato determinato valutando l’aumentato fabbisogno di L-tiroxina (LT4) in donne tiroidectomizzate o sottoposte a trattamento metabolico con radioiodio.

Aumento del fabbisogno giornaliero di iodio
Esso è determinato dall’aumento della clearence renale dello iodio che implica una sua maggiore escrezione urinaria e dalla quantità di questo elemento che viene messa a disposizione del feto.
Nelle zone caratterizzate da carenza iodica si può assistere alla comparsa di deficit di iodio in quanto questo aumentato fabbisogno può non essere soddisfatto; ciò comporta che diviene difficile riuscire ad aumentare la sintesi di ormoni tiroidei in risposta all’aumento di TBG e alle necessità del feto, che vanno di pari passo con lo sviluppo e la maturazione della sua tiroide.

Aumento della gonadotropina corionica (HCG)
È una glicoproteina essenziale nel mantenimento del corpo luteo e nella sua trasformazione in corpo luteo gravidico: la sua secrezione inizia dopo il concepimento, raggiunge il suo picco alla 10° settimana di gravidanza per poi diminuire sino a un valore minimo alla 20° settimana.
È stato segnalato che attiva il recettore del TSH mimandone l’effetto: troppo modesta, comunque, questa azione per causare un ipertiroidismo; fenomeno che invece può accadere in alcune patologie come la mola e il coriocarcinoma nel corso delle quali viene secreta una quantità anomala di HCG.
Questi eventi non presentano difficoltà di adattamento da parte di una tiroide normale; qualora, invece, la ghiandola non sia esente da patologia non riesce ad adeguarsi facilmente alle nuove esigenze e pertanto spesso occorre intervenire farmacologicamente.

2) FISIOLOGIA PLACENTARE
La placenta ha una struttura tale da rendere possibile il passaggio di iodio mentre funge come barriera per gli ormoni tiroidei, del TSH e della tireoglobulina: al suo interno è presente una elevata concentrazione dell’enzima desiodasi tipo III che, come precedentemente descritto, determina una degradazione della T4. Comunque piccole quantità di T4 materna raggiungono il feto prima che questo inizi la sua funzione tiroidea e ciò è di estrema importanza per assicurare il normale sviluppo del sistema nervoso nelle prime settimane di gestazione.
La placenta è invece permeabile al TRH (l’ormone ipotalamico) ma questo elemento è di scarsa importanza in quanto la concentrazione di tale ormone nel siero della madre è molto ridotta.

3) FISIOLOGIA FETALE
Gli ormoni tiroidei sono indispensabili per la differenzazione e la crescita dei tessuti del feto ma soprattutto per il sistema nervoso; di qui l’importanza anche di quelle piccole quantità di ormoni tiroidei materni che superano la placenta nelle primissime fasi della gestazione, quando ancora l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide fetale non funziona autonomamente.
Dall’analisi del liquido amniotico è possibile studiare l’attività della tiroide fetale e la sua evoluzione durante la gravidanza.
La tireoglobulina, che è la proteina dove vengono sintetizzati e immagazzinati gli ormoni tiroidei e che non attraversa la placenta, è stata evidenziata già nella quinta settimana di gestazione: essa raggiunge il livello più alto verso la 27ª-28ª settimana per rimanere costante sino alla nascita.
I follicoli compaiono intorno alla 10ª settimana di gestazione. Il processo di captazione dello iodio da parte della tiroide inizia alla 11ª-12ª settimana. Anche l’ipofisi inizia a secernere TSH in questo periodo e raggiungere il suo valore massimo intorno alla 36ª settimana.
Il T4 inizia a formarsi dalla 12ª settimana, aumenta progressivamente sino a eguagliare i valori della madre poco prima del termine della gravidanza.
Il T3 si mantiene relativamente basso per tutta la gravidanza e aumenta rapidamente dopo la nascita mentre aumenta la frazione dell’rT3.
Il meccanismo di controregolazione FT4-TSH raggiunge l’equilibrio solo dopo il parto.
Nella tabella 1 vengono sintetizzati i cambiamenti fisiologici di maggior rilievo della tiroide in corso di gravidanza con i rispettivi effetti.

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VALUTAZIONE DELLA FUNZIONALITÀ TIROIDEA
Dal momento che l’aumento fisiologico della TBG in gravidanza determina un aumento dei livelli delle T3 e T4 totali l’indice più fedele della funzionalità tiroidea della donna in gravidanza è il dosaggio delle frazioni libere che rappresenta la quota metabolicamente attiva.
Nella maggior parte delle tireopatie le variazioni della FT3 e della FT4 sono consensuali aumentando nell’ipertiroidismo e diminuendo nell’ipotiroidismo: in tali patologie varia invece il rapporto tra i due ormoni in quanto la FT3 aumenta di più dell’altra frazione nell’ipertiroidismo mentre diminuisce di meno nell’ipotiroidismo. Questo comporta che la determinazione dell’FT3 è più specifica per lo studio dell’aumentata funzionalità della ghiandola, quella di FT4 quando essa è diminuita.
Esistono tireopatie nelle quali i livelli degli ormoni, invece, si presentano discordanti: questo avviene ad esempio nella forma di T3tossicosi nel corso della quale si evidenzia un aumento isolato della FT3, nei soggetti eutiroidei che vivono in aree a carenza iodica nei quali si dimostra ancora un aumento della FT3 e diminuzione dell’FT4, nell’ipotiroidismo subclinico con l’FT3 normale e l’FT4 che può essere anche ridotto e infine in tutte quelle forme cliniche eutiroidee che costituiscono le cosiddette sindromi con bassa T3 dovute di solito a gravi malattie extratiroidee o al digiuno e caratterizzate da valori normali di FT4 e bassi di FT3.
Il dosaggio del TSH è di fondamentale importanza nella diagnosi delle tireopatie: esso è divenuto talmente sensibile da rendere inutile la esecuzione del test al TRH che rimane importante solo nella diagnosi differenziale tra ipotiroidismo ipofisario e quello ipotalamico. Il TSH diminuisce nell’ipertiroidismo, ma occorre evidenziare che esso può risultare ridotto nel primo trimestre per l’influenza della gonadotropina corionica, anche in perfetto eutiroidismo; aumenta, invece, in tutte le forme di ipotiroidismo sia primitivo sia centrale.

CARENZA IODICA
L’importanza biologica dello iodio deriva dal fatto che questo elemento è il costituente essenziale degli ormoni tiroidei.
La principale fonte è costituita dal mare e pertanto ne sono ricchi tutti gli alimenti di origine marina: i pesci di mare (115 microgr/100 gr) e i crostacei in particolare (300 microgr/100 gr) costituiscono la sua fonte maggiore ma anche uova (70 microgr/100 gr), carne (60 microgr/100 gr) e latte (10 microgr/100gr) contengono una discreta quantità di tale elemento.
Il suo fabbisogno giornaliero negli adulti è di circa 150 microgr ma in molti paesi del mondo, e tra essi anche l’Italia, lo iodio è presente in quantità ridotte e pertanto tale fabbisogno non può essere soddisfatto (tab. 2).

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Durante la gravidanza il processo di adattamento funzionale della tiroide richiede un aumento del tasso di sintesi e di secrezione degli ormoni tiroidei e ciò implica necessariamente l’aumento della disponibilità nutrizionale di iodio: pertanto durante questo periodo il suo apporto consigliato è significativamente più alto e deve raggiungere almeno i 250 microgr/die.
L’organo che più risente di un eventuale deficit di questo elemento è la tiroide che in un primo momento sopperisce con una iperplasia/ipertrofia (gozzo) e in seguito, qualora esso dovesse persistere, va incontro a un quadro conclamato di ipotiroidismo.
Si è valutato che in Italia, sino circa a 10 anni fa, fossero almeno 5 milioni le persone affette da gozzo da carenza iodica localizzate soprattutto nelle regioni extraurbane centro-meridionali: grazie alla iodoprofilassi tale valore si è significativamente ridotto nel corso degli ultimi anni.

Le gestanti residenti in zone con carenza iodica non riescono a soddisfare l’esigenza di un aumento dell’apporto di iodio e pertanto vanno frequentemente incontro ad alterazioni morfofunzionali della tiroide; infatti si è dimostrato che, in questi casi, l’aumento di volume della ghiandola può arrivare sino al 30% quando invece può raggiungere al massimo il 10% in donne in gravidanza residenti in zone con apporto iodico ottimale per l’ipervascolarizzazione della ghiandola presente normalmente in gravidanza.
Gli indici sierologici di questo eccessivo carico funzionale sono rappresentati da valori ai limiti inferiori di FT4, dalla secrezione preferenziale di FT3 con un rapporto elevato di FT3/FT4, dall’aumento del TSH e della tireoglobulina.
La somministrazione di iodio si accompagna a una netta riduzione delle modificazioni del volume della ghiandola. Le donne gravide che presentano patologia gozzigena possono essere trattate anche con l’aggiunta di L-tiroxina in quanto l’ormone attraversa la barriera placentare solo in minima quantità e non influenza lo stato tiroideo del feto normale: il dosaggio deve essere tale da sopprimere il TSH.
Il feto risente notevolmente del deficit di iodio della madre in quanto durante la gravidanza, e in particolare nel primo trimestre, la sua funzione tiroidea dipende interamente dallo iodio che gli proviene attraverso la placenta: si possono verificare aborti spontanei, natimortalità, la presenza di anomalie congenite.
Anche il neonato ne risente in quanto lo iodio è presente in alte concentrazione nel latte materno: la sua tiroide fa difficoltà a produrre ormone e ciò si traduce, a secondo della gravità del deficit, nella comparsa di gozzo o nel cosiddetto “ipotiroidismo neonatale transitorio” (tab. 3).

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Una dissertazione a parte meritano i disturbi neuropsichici causati da mancanza di iodio durante la gravidanza o nei primi anni di vita. La loro entità è determinata dal periodo di insorgenza, dalla gravità e dalla durata della carenza. Nelle aree dove il deficit è moderato i disturbi sono minori e si limitano a modesti difetti di percezione, di attenzione e ritardo dei tempi di reazione: se invece la carenza iodica è stata grave e protratta le alterazioni possono essere molto più gravi fino a giungere al quadro clinico di “cretinismo endemico” caratterizzato da gravissimo ritardo mentale, sordomutismo e grave deficit neuromotorio.
L’iodoprofilassi si è dimostrata un metodo efficace nella prevenzione dei disordini da carenza iodica. I metodi sono molteplici e la scelta è legata soprattutto allo sviluppo socio-economico dell’area geografica. In Italia che, come in tutti i paesi industrializzati, dispone di una adeguata rete di distribuzione il metodo utilizzato è quello più semplice e meno costoso dell’aggiunta di iodio al sale da cucina.
La nostra legislazione attuale prevede una commercializzazione di 30 mg di iodio per kg di sale. Il suo utilizzo è assolutamente volontario e ciò comporta che il suo consumo attuale è di cica il 7% quando dovrebbe essere almeno del 70% in quanto tutta la popolazione italiana è a rischio e bisognerebbe che se ne facesse uso in tutte le regioni.

La forma di iodoprofilassi alternativa al sale iodato è costituito dall’olio iodato (lipiodol) usato soprattutto nelle zone endemiche del terzo mondo. La sua somministrazione può avvenire per via intramuscolare o per via orale; una singola iniezione assicura un apporto di iodio per 3-5 anni mentre una singola somministrazione orale fornisce la copertura per 1-2 anni; offre il vantaggio di una somministrazione unica, lo svantaggio di dover essere somministrato individualmente.
Altre forme di profilassi sono costituite dallo iodio introdotto nell’acqua ma la sua applicazione su larga scala risulta problematica in quanto risulta difficile il controllo di tutte le fonti di approvvigionamento idrico.

TIROIDITI AUTOIMMUNI
Sono processi infiammatori cronici dovuti alla presenza di autoanticorpi antitiroidei circolanti: determinano distruzione della tiroide mediante un processo di immunità anticorpale sierica e cellulo-mediata e causano un’insufficienza funzionale della tiroide più o meno grave.
L’autoimmunità tiroidea si associa spesso ad infertilità dovuta a endometriosi e disfunzione ovarica ma non sono stati ancora chiariti quali siano i rapporti diretti esistenti tra questi quadri clinici: è indispensabile, pertanto, eseguire lo screening immunitario tiroideo in tutta la popolazione femminile infertile. Esso è ancora più importante prima di un’eventuale riproduzione assistita: l’iperstimolazione ovarica, che è caratterizzata da un aumento degli estrogeni circolanti, può determinare in presenza di una tiroidite autoimmune un‘alterazione della sua funzionalità che può perdurare anche durante tutta la gravidanza.
Le tiroiditi autoimmuni colpiscono quasi il 9% delle donne di età inferiore ai 30 anni: ciò comporta che sono molto frequenti in gravidanza.
Possono influenzare il decorso della gestazione e la funzionalità tiroidea del feto e del neonato così come esse stesse possono essere influenzate dal processo di immunosoppressione proprio della gravidanza e dalla riaccensione immunitaria che avviene dopo il parto.
La malattia clinica si sviluppa quando si altera quell’equilibrio esistente tra i fattori favorenti l’autoimmunità tiroidea e i meccanismi della tolleranza autoimmunitaria.
I principali autoantigeni tiroidei sono la tireoglobulina, la perossidasi tiroidea e il recettore del TSH che determinano la formazione degli specifici anticorpi.
Il primo approccio per identificare l’origine autoimmune della tiroidite è la determinazione degli anticorpi antiperossidasi (anti-TPO) e degli anticorpi antitireoglobulina (anti-TG).
I primi sono molto più frequenti e pertanto la loro positività rappresenta l’indice diagnostico più sensibile di tireopatia autoimmune (fig. 2).

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La più accreditata genesi patogenetica è che tali anticorpi possono danneggiare la cellula tiroidea tramite una attivazione del complemento e la formazione di cellule citotossiche
Va precisato che l’entità di questi autoanticorpi circolanti è spesso condizionata dalla terapia in quanto essi possono essere ridotti anche significativamente dai tireostatici nel Basedow e dal LT4 nell’Hashimoto e nella forma atrofica
Attraversano normalmente la placenta ma non determinano nessun danno alla tiroide del feto e del neonato.
Gli anticorpi contro il recettore del TSH (TRAb) si distinguono in due tipi a seconda della loro attività stimolante (TSAb) o inibente (TSHBAb). I primi sono responsabili del quadro clinico del Basedow e delle fasi tireotossiche transitorie del morbo di Hashimoto, i secondi esplicano un’azione inibente e contribuiscono alla patogenesi dell’ipotiroidismo da tiroidite autoimmune.

Questi anticorpi a differenza dei precedenti possono passare la placenta e pertanto causare disturbi clinici non solo della madre ma anche del feto e del neonato.
Non esiste una uniformità di vedute sull’importanza clinica della determinazione dei TRAb: essi comunque risultano sicuramente importanti nella valutazione del rischio di ipo o ipertiroidismo neonatale nei nati da madri affette da tiroidite autoimmune.
Spesso in gravidanza si evidenzia un miglioramento delle manifestazioni cliniche in tutte le forme di tiroidite autoimmune, soprattutto di quelle ipertiroidee: esse però dopo il parto tendono a peggiorare. Fino al 50% delle pazienti basedowiane può andare incontro a una remissione della malattia ma almeno il 70% presenta una recidiva dopo il parto; anche nelle forme di ipotiroidismo da tiroidite di Hashimoto si può assistere a riduzione del TSH ma dopo il parto anche queste donne vanno incontro a netto peggioramento del quadro clinico.

Non sono ancora completamente tutti chiari i meccanismi immunitari che determinano le variazioni cliniche in gravidanza ma sono stati dimostrati alcuni fenomeni:
–    i livelli degli anti-TPO, anti-TG e gli anticorpi tireostimolanti si riducono soprattutto nella seconda parte della gestazione e aumentano nel post-partum;
–    le cellule citotossiche posseggono una capacità litica ridotta;
–    i linfociti T helper risultano ridotti;
–    il rapporto tra linfociti T helper e quelli T soppressor è ridotto al termine della gravidanza.
È stato descritto che la frequenza dell’aborto spontaneo aumenta nelle donne con presenza di autoanticorpi circolanti anche senza deficit della funzionalità tiroidea e tale aumento è stato quantificato nel 15%: raggiunge quasi il 36% in donne che presentano una sindrome dell’aborto ricorrente.
Il meccanismo attraverso il quale ciò avviene è ancora controverso. Una prima ipotesi chiama in causa una eventuale interazione tra gli anticorpi e gli ormoni secreti dalla placenta che porterebbe a un insufficiente apporto di progesterone; una seconda ipotesi potrebbe essere che la causa non sarebbe dovuta a una loro azione diretta ma alla disfunzione autoimmunitaria più generalizzata aspecifica; infine altri ipotizzano che la presenza degli anticorpi rappresenti solo il segnale di un deficit tiroideo in atto o che si sta sviluppando in quanto in gravidanza diversi fattori quali l’iperestrogenismo, l’azione tireostimolante della HCG e la eventuale comparsa di una carenza iodica portano a una maggior richiesta di ormone tiroideo.
Le malattie autoimmuni della tiroide si manifestano con alterazioni funzionali che vanno dall’ipertiroidismo all’ipotiroidismo (tab. 4).
La più frequente è il morbo di Hashimoto che rappresenta l’esempio più classico in quanto soddisfa in misura completa i classici criteri accettati per stabilire la etiologia autoimmune organo-specifica della malattia.
L’ereditarietà costituisce uno dei fattori di rischio più importanti: autoanticorpi antitiroide si trovano nel 50% dei fratelli e in misura del 25% negli altri parenti di pazienti affetti da questa patologia.
Esistono due forme: quella atrofica (senza gozzo) e quella più classica e frequente con la presenza di gozzo.
Nella maggior parte dei casi le gestanti rimangono eutiroidee per tutta la durata della gravidanza: una forma di ipotiroidismo subclinico è presente in una percentuale ridotta mentre un quadro clinico conclamato di ipotiroidismo si evidenzia solo nel 7% dei casi (fig. 3).

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Spesso sono assolutamente asintomatiche e l’obbiettività può essere completamente negativa a eccezione della presenza di un gozzo più o meno voluminoso.
Per quanto riguarda la terapia in nessun caso è giustificato il trattamento con farmaci anti-infiammatori e/o immunosoppressori. È necessario solo il controllo ripetuto della funzionalità tiroidea e in caso di evoluzione verso la sua insufficienza la pronta correzione con L-tiroxina.
La presenza di una tiroidite autoimmune nella gestante può determinare alterazioni anche gravi a carico della tiroide del feto e del neonato: è determinata dalla presenza degli anticorpi materni contro il recettore del TSH (TRAb) che come già segnalato sono capaci di attraversare la placenta: cominciano ad essere presenti nel feto già alla 22ª settimana per poi raggiungere lo stesso livello della madre alla 30ª settimana.
Possono causare quadri clinici di ipertiroidismo o ipotiroidismo fetali e neonatali: sono rari ma quando presenti possono richiedere un trattamento specifico.
La loro insorgenza è legata alla presenza e attività biologica dell’anticorpo tireostimolante (TSAb) o di quello bloccante (TSBAb) l’azione del TSH:

IPERTIROIDISMO
Se dall’anamnesi materna emerge una tireopatia autoimmune, la presenza di livelli di TSAb materni molto elevati alla 20ª-30ª settimana deve far sospettare la presenza di un ipertiroidismo fetale-neonatale in quanto gli ab, passando la placenta, possono andare a stimolare la tiroide del feto a produrre un eccesso di ormoni tiroidei.
Il sospetto è ancora più fondato se la gestante è affetta da morbo di Basedow con gozzo molto voluminoso, oftalmopatia e mixedema pretibiale e se ha la necessità di elevate dosi di tionamidi per mantenere l’eutiroidismo.
Nel feto i segnali clinici sono dati dalla tachicardia con più di 160 battiti al minuto e dal ritardo di crescita intrauterina: raramente una ecografia fetale riesce ad evidenziare la presenza di un gozzo. Qualora fosse presente un elevato sospetto di tale quadro clinico può essere valutata l’opportunità di eseguire un prelievo mediante funicolocentesi per la determinazione degli ormoni tiroidei: il rischio della metodica è, infatti, controbilanciata dalla entità di informazioni che questo prelievo può fornire. Tale patologia è molto rara e ha una mortalità molto alta.

La terapia consiste nella somministrazione di tionamidi alla madre in quanto questi farmaci superano la placenta: la dose va regolata sulla base della frequenza cardiaca del feto.
Anche la forma neonatale è molto rara e comunque è di solito transitoria in quanto la vita media degli TSAb di origine materna è di circa due settimane; di solito si esaurisce in 2-3 mesi.
Il neonatologo, visitando il neonato, deve insospettirsi di fronte a una o più delle seguenti situazioni: tachicardia, esoftalmo, gozzo, ipereccitabilità, aritmie, il basso peso alla nascita e infine uno scarso incremento di peso nonostante un buon appetito. Va comunque precisato che di solito la tireotossicosi non si manifesta alla nascita in quanto nella maggior parte dei casi questi neonati nascono da donne in trattamento con tireostatici: poiché questi farmaci superano la placenta la funzionalità tiroidea è sotto controllo sino alla nascita; l’iperfunzione della ghiandola compare dopo circa 24-48 ore e risulta clinicamente evidente dopo la prima settimana di vita.
Per individuare precocemente l’ipertiroidismo neonatale può essere necessaria la determinazione degli ormoni tiroidei sul sangue del cordone ombelicale.
Il trattamento di solito è temporaneo e si basa sulla somministrazione di tireostatici e ioduro: durante la terapia è opportuno eseguire frequenti controlli degli ormoni tiroidei onde evitare iperdosaggi e soprattutto dei TSAb, perché la loro scomparsa preannuncia l’esaurirsi dell’ipertiroidismo.

IPOTIROIDISMO
Esso è provocato dal trasferimento dalla madre al feto di TSHBAb che sono dotati di attività inibente il TSH. Costituisce circa 1-2% di tutti i casi di ipotiroidismo congenito.
Nella quasi totalità dei casi la madre ha una tiroidite autoimmune nella forma atrofica ed è ipotiroidea o in terapia sostitutiva.
Esso si sviluppa di solito nelle ultime settimane della gestazione e per tale motivo non risulta indispensabile una diagnosi pre-partum; anche se la precocità della diagnosi e della terapia risulta estremamente importante per evitare l’insorgenza di alterazioni neurologiche.
Anche questa forma è transitoria in quanto gli anticorpi hanno nel neonato una vita media di 2-4 settimane.
Il trattamento sostitutivo con LT4 deve essere iniziato con rapidità in quanto il deficit ormonale non trattato può procurare gravi deficit neurologici e mentali: esso va protratto per tutto il primo anno di vita.

IPOTIROIDISMO
Per ipotiroidismo si intende una sindrome caratterizzata dalla riduzione degli ormoni tiroidei nelle cellule bersaglio e circolanti; clinicamente si manifesta con la riduzione delle funzioni di quasi tutti i sistemi e soprattutto di quello cardiovascolare, gastrointestinale, nervoso e cutaneo.
È detto primario quando è causato da insufficienza della ghiandola tiroidea, secondario quando dipende da un deficit di TSH, terziario quando è dovuto a un deficit di TRH e infine periferico quando dipende da un deficit recettoriale; il primario può essere congenito per una agenesia della ghiandola o per una sua ridotta funzionalità alla nascita e acquisito come risultato di un processo infiammatorio.
È detto subclinico quando a un TSH aumentato si associano valori normali di FT3 e FT4 in assenza di segni clinici; franco o manifesto quando anche gli ormoni tiroidei risultano ridotti e compare la sintomatologia caratteristica dell’ipotiroidismo.
Nella popolazione generale l’ipotiroidismo è la patologia tiroidea più frequente: studi epidemiologici eseguiti in Inghilterra hanno indicato che nel sesso femminile la prevalenza di tale patologia è del 7,7% se si considerano solo le forme spontanee mentre si arriva a quasi il 10% se si includono anche le forme determinate da trattamenti radiometabolici o interventi chirurgici.
Durante la gravidanza queste percentuali risultano più basse: ciò avviene sia perché la stessa patologia è causa di ridotta fertilità sia perché essa è più frequente dopo la quinta decade di vita.
Nella tabella 5 vengono riportati i fattori correlati a un elevato rischio di sviluppare una patologia ipotiroidea in gravidanza
Negli Stati Uniti uno studio eseguito su 2.000 gravide tra la 15ª e la 18ª settimana di gestazione ha messo in evidenza che il 2,2% aveva un TSH superiore a 6 mU/l e una FT4 normale e pertanto un ipotiroidismo subclinico mentre lo 0,3% aveva un ipotiroidismo franco con TSH alto e FT4 basso
La causa più comune dell’ipotiroidismo in gravidanza è costituita dalle tiroiditi autoimmuni con la presenza di anticorpi (90% delle donne con ipotiroidismo franco) mentre nelle zone con carenza iodica la causa più frequente è il deficit alimentare di iodio (tab. 6).

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La diagnosi clinica di ipotiroidismo in gravidanza può non essere facile in quanto molti sintomi lamentati sono spesso presenti normalmente nelle donne gravide: eccessiva intolleranza al freddo, secchezza dei capelli e la loro aumentata caduta, astenia ingravescente e difficoltà di concentrazione; spesso sono anche presenti le parestesie e il caratteristico ritardo del processo di rilasciamento neuromuscolare per il rallentamento dei riflessi osteotendinei, segni caratteristici dell’ipotiroidismo conclamato (tab. 7).

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È estremamente importante la precocità della diagnosi per evitare che la carenza funzionale della ghiandola possa determinare effetti negativi a carico del feto, in quanto nelle prime settimane di gravidanza, quando l’apporto ormonale è esclusivamente materno, gli ormoni tiroidei sono determinanti per il corretto sviluppo del sistema nervoso del feto.
Una anamnesi accurata è indispensabile per il riconoscimento delle donne a rischio di sviluppare tale patologia anche perché lo screening del primo trimestre di gravidanza non comprende ancora la valutazione della funzionalità tiroidea: una familiarità positiva, una storia personale di presenza di una tireopatia, di una patologia autoimmunitaria, di diabete mellito di tipo I o di una malattia che richiede l’utilizzo di farmaci che possono interferire con la funzionalità tiroidea devono sempre far sospettare una possibile insorgenza di ipotiroidismo in gravidanza.
Il test più importante per la diagnosi è costituito dalla determinazione del livello sierico del TSH che risulta di solito aumentato; spesso solo il TSH è elevato mentre gli ormoni tiroidei sono ancora nella norma come avviene nella forma subclinica: occorre sempre tener presente che, come è stato già precedentemente segnalato, il TSH viene influenzato dai livelli aumentati di HCG.
Il dosaggio della FT4 ha minore importanza per l’interferenza determinata dalla presenza di aumentati valori di TBG ma comunque il riscontro di valori bassi associati a un aumento del TSH depone per un quadro di ipotiroidismo franco. Anche la determinazione di FT3 può risultare di scarso valore in quanto può essere normale nonostante un valore basso di FT4 e può risultare alterato per la presenza nella gestante di patologie extratiroidee.
La determinazione dell’ioduria è importante in quanto l’aumento della clearence renale dello iodio comporta un aumento della eliminazione di questo elemento con le urine.
La ricerca degli anticorpi risulta opportuna per cercare di individuare un’eventuale etiopatogenesi autoimmunitaria dell’ipotiroidismo; le donne in gravidanza affette da tiroidite autoimmune risultano positive all’anti-TPO per circa il 90% e all’anti-Tg per circa il 50%; in circa il 20% di quelle affette da tiroidite atrofica si trova la presenza di anticorpi diretti contro il recettore del TSH che esplicano un’azione bloccante l’effetto biologico della tireotropina sulla tiroide (tab. 8).

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Anche l’ECG costituisce un indagine fondamentale in quanto può mostrare la presenza di bassi voltaggi su tutte le derivazioni e alterazione della ripolarizzazione ventricolare.
Lo studio ecografico, indagine non invasiva e ripetibile, può servire per la conferma di una diagnosi formulata già precedentemente alla gravidanza (come nelle forme postchirurgiche) o per lo studio della evoluzione di patologia nodulare, anche eventualmente con l’ausilio dell’esame citologico.
Tra le indagini complementari va segnalata la determinazione della colesterolemia che spesso si presenta aumentata nell’ipotiroidismo, dell’emocromo (frequente presenza di anemia normocitica) e della cortisolemia per escludere la presenza di una insufficienza corticosurrenalica che a volte si accompagna a quella tiroidea.
Le complicanze legate all’ipotiroidismo non trattato sono diverse e interessano la madre, il feto e il neonato: come riportato nella tabella 9, hanno percentuali di insorgenza diverse a secondo se si tratta di una forma franca o di una subclinica.
A carico della madre la più frequente è la preeclampsia che si può manifestare con la sua triade sintomatologica ipertensione arteriosa, proteinuria ed edemi ma più frequentemente con la sola ipertensione; altre possibili complicanze sono l’anemia e l’emorragia post-partum con percentuali intorno al 5-6%.

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La presenza di un deficit tiroideo anche in forma subclinica si associa a incremento significativo di complicanze ostetriche determinando un rischio tre volte aumentato di aborto e parto pretermine.
È descritto che l’incidenza di ipotiroidismo in donne che presentano aborti ricorrenti arriva quasi al 30% in quanto, soprattutto nelle prime fasi della gravidanza, sarebbe responsabile di alterazioni irreversibili sull’unità feto-placentare.
È assolutamente comprovata l’importanza degli ormoni tiroidei per la crescita e lo sviluppo neurologico del feto.

È noto che la tiroide fetale è in grado di produrre ormoni solo a partire dalla 10ª-12ª settimana di gravidanza; per tale motivo gli ormoni necessari in questa fase sono unicamente quelli di origine materna. Qualora, pertanto, la gestante dovesse essere affetta da deficit funzionale della tiroide, il feto potrebbe andare incontro a danni più o meno gravi a secondo della gravità di tale deficit e dell’eventuale associazione di carenza iodica: in questo caso, che prefigura la presenza di un ipotiroidismo materno/fetale/neonatale, si può assistere a un danno irreversibile dello sviluppo neurologico e intellettivo che, nella sua forma più grave, configura il quadro clinico del cretinismo endemico.

La terapia si basa sulla somministrazione di sale sodico della l-tiroxina a dosi cosiddette “sostitutive” tenendo conto di tre direttive:
–    riportare l’equilibrio ormonale nel più breve tempo possibile compatibilmente con le condizioni cardiache;
–    la dose da somministrare di solito è più alta di quella usata nel periodo pre- e post-gravidico;
–    eseguire frequenti controlli ormonali onde poter evidenziare l’adeguatezza del trattamento.
Il farmaco esplica la sua azione dopo conversione periferica in T3 riproducendo la situazione fisiologica della desiodazione periferica del T4 in T3: ha una emivita biologica abbastanza lunga e pertanto una sola somministrazione giornaliera permette di ottenere una concentrazione ematica costante di ormoni; deve essere assunto a digiuno circa 20 minuti prima della colazione e nei casi di vomito anche dopo aver mangiato: non sono descritte reazioni allergiche e i fenomeni collaterali sono legati solo a un eventuale iperdosaggio.

Nel caso di una forma di ipotiroidismo conclamato neodiagnosticato in gravidanza è opportuno ripristinare con celerità il pool corporeo della tiroxina: alcuni autori giungono a consigliare la somministrazione di una iniziale dose tripla per poi continuare con i normali dosaggi giornalieri ma tale condotta può determinare l’insorgenza di tachicardia e altri sintomi propri dell’iperdosaggio. La dose ottimale è strettamente individuale ed è quella che permette di riportare il valore del TSH nel range di normalità: la frequenza dei controlli varia dai 30 ai 60 giorni ma anche essa è molto soggettiva dipendendo dalle problematiche connesse alla patologia di base (tab. 10).

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Nelle donne che sono già in terapia sostitutiva per un ipotiroidismo diagnosticato prima della gravidanza il fabbisogno di tiroxina di solito aumenta: esso si può manifestare già entro le prime 4 settimane dal concepimento e pertanto è opportuno iniziare a eseguire controlli del TSH immediatamente dopo la prima mancanza mestruale e successivamente almeno ogni 30-40 giorni in quanto la necessità di aumentare la dose si può rendere necessaria anche in fasi più avanzate della gravidanza. Circa l’85% delle donne ipotiroidee deve ricorrere in gravidanza a un incremento del trattamento che varia di solito tra i 25 ed i 100 microgr/die con un valore medio del 47%: mediamente esso risulta necessario nelle prime 16-20 settimane. Alcuni autori consigliano di aumentare il dosaggio della tiroxina del 30% ancora prima di eseguire i controlli ormonali (tab. 11).

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Occorre comunque sempre tener presente che il dosaggio dell’ormone è definito “trimestre-dipendente” in quanto spesso il passaggio dal terzo al quarto mese di gravidanza e dal sesto al settimo richiede più frequentemente una correzione del dosaggio.
Infine occorre sempre tenere in considerazione l’eventuale insorgenza di ipotiroidismo fetale transitorio per il passaggio di anticorpi materni TRab attraverso la placenta alla 20ª e 30ª settimana o parziale transitoria remissione nel corso di ipotiroidismo da tiroidite di Hashimoto.

IPERTIROIDISMO
Per ipertiroidismo si intende una sindrome caratterizzata dall’aumento degli ormoni tiroidei; rientra nel quadro più ampio delle tireotossicosi che comprendono anche le forme cliniche da cause extratiroidee come la loro somministrazione esogena, l’ipersecrezione di TSH e la sindrome da resistenza ipofisaria agli ormoni tiroidei.

È una patologia molto frequente nelle donne in età fertile e di conseguenza in gravidanza: raramente la malattia insorge con l’inizio della gestazione ma di solito si tratta di persone che hanno già una storia clinica pregressa o in corso di ipertiroidismo. Si valuta che 1-2 gravidanze su 1.000 (0,2%) siano associate a ipertiroidismo.
Le donne ipertiroidee hanno di solito una fertilità normale ma occorre sempre evitare, ove possibile, una gravidanza durante le fasi più tossiche della malattia sia per gli effetti negativi del quadro clinico sia per la tossicità legata all’alto dosaggio dei farmaci eventualmente necessari (tab. 12).

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Circa l’80% di tutte le donne ipertiroidee in gravidanza sono affette da morbo di Basedow-Graves o gozzo tossico diffuso: è una malattia autoimmunitaria dovuta ad autoanticorpi diretti contro il recettore del TSH e clinicamente caratterizzata dalla triade ipertiroidismo, gozzo e oftalmopatia.
Più rare sono le forme di gozzo tossico multinodulare dove uno o più noduli, preesistenti da vecchia data, aumentano gradualmente la loro funzionalità e quelle da adenoma tossico dove invece è presente un singolo adenoma iperfunzionante in una tiroide normale; queste sono forme rare in quanto sono patologie che insorgono a una età più tarda rispetto alla terza-quarta decade di vita di solito interessate dalle gravidanza.

Altra forma, rara ma caratteristica della gravidanza, è quella legata alla presenza della mole idatidiforme e del coriocarcinoma. Sono malattie neoplastiche del trofoblasto che insorgono nelle prime settimane di gravidanza: poiché, come già segnalato, l’ormone è provvisto di un’azione agonista per il recettore del TSH questi tumori possono causare un quadro clinico di ipertiroidismo; esso di solito è lieve e clinicamente evidente solo nel 2% dei casi e recede completamente dopo la sua asportazione.
Anche l’iperemesi gravidica può associarsi a ipertiroidismo. È una condizione morbosa caratterizzata da vomito e perdita di peso; inizia entro la 7ª settimana di gestazione e di solito recede spontaneamente alla 18ª-20ª settimana. Anche in questo caso sembra che l’associazione sia da attribuire ai valori elevati di HCG: l’ipertiroidismo è lieve e recede spontaneamente con la diminuzione dei valori dell’ormone placentare senza la necessità di alcun trattamento specifico.

Ancora più rare sono considerate le forme determinate da abnorme assunzione di ormoni esogeni o di iodio
Quando la donna in gravidanza abbia già una storia clinica di ipertiroidismo, in atto o pregressa, la diagnosi clinica non presenta difficoltà, cosa che invece può accadere per i casi di nuova insorgenza: ciò è determinato dal fatto che molti sintomi quali la cute calda, l’intolleranza al caldo, l’iperidrosi, l’aumento della PA differenziale, l’iperemesi, l’astenia e l’ansietà propri dell’ipertiroidismo possono essere presenti normalmente in gravidanza anche se di solito, in questo periodo, essi si accentuano significativamente (tab. 13).

Comunque i sintomi caratteristici dell’ipertiroidismo sono il dimagrimento (mentre di solito la gestante tende all’aumento di peso), la tachicardia e il cardiopalmo, i tremori, l’alvo tendenzialmente diarroico, la presenza di gozzo soprattutto in aree a sufficiente apporto iodico e/o la percezione di fremito-soffio sulla tiroide; l’oftalmopatia, l’onicolisi del quarto e quinto dito e infine la presenza di mixedema pretibiale sono segni clinici caratteristici della forma da morbo di Basedow.
Va tenuto comunque sempre presente che a causa dei cambiamenti della condizione immunitaria che insorgono in gravidanza si può assistere, soprattutto nella seconda parte di essa, a un miglioramento clinico del morbo di Basedow e di un suo eventuale peggioramento nel post-partum (tab. 14).

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La diagnosi di laboratorio di ipertiroidismo si basa sulla evidenza di valori elevati di FT3 e FT4 e bassi o indosabili di TSH con l’unica eccezione di quei casi in cui vi è la presenza di un adenoma ipofisario TSH-secernente dove i livelli di questo ormone sono normali o elevati; nel gozzo tossico multinodulare e nell’adenoma tossico vi può essere l’aumento isolato di FT3.
La diagnosi differenziale tra le varie tireopatie si basa, oltre che sull’obbiettività, sulla ecografia e sulla ricerca degli autoanticorpi essendo in gravidanza la scintigrafia controindicata. L’ecografia rappresenta un esame senza alcun rischio e ci permette di definire con assoluta precisione la morfologia della tiroide e la presenza di uno o più noduli: lo studio con colordoppler evidenzia l’entità della sua vascolarizzazione.

Per la diagnosi di malattia di Basedow sono di grande importanza la ricerca nel siero degli anticorpi antitireoglobulina e antiperossidasi ma soprattutto dei TRAb, vale a dire di quelli diretti contro il recettore del TSH: questi ultimi sono particolarmente importanti in quanto la loro presenza a titolo molto elevato può far sospettare un ipertiroidismo fetale e far prevedere la comparsa di un ipertiroidismo neonatale. I livelli delle fosfatasi alcaline e dell’idrossiprolinuria di solito risultano aumentati per l’azione che gli ormoni tiroidei hanno sull’osso: la colesterolemia è, invece, spesso ridotta.
Un ipertiroidismo non diagnosticato o diagnosticato in ritardo o non adeguatamente trattato può far insorgere complicanze anche molto gravi a carico della madre, del feto e del neonato (tab. 15).

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Nella madre le complicanze più frequenti sono quelle a carico dell’apparato cardiovascolare: l’eventuale associazione dell’ipertensione arteriosa all’aumentata gittata cardiaca e alla tachicardia propri dell’ipertiroidismo possono determinare la comparsa di una insufficienza cardiaca.
Così come segnalato per l’ipotiroidismo anche nel corso di ipertiroidismo possono insorgere complicanze quali il distacco di placenta, la preeclampsia e l’anemia; sono state descritte crisi tireotossiche al momento del parto in donne non trattate.
Le complicanze fetali e neonatali comprendono l’aborto con percentuali che vanno dal 4 al 25% a secondo delle casistiche, il ritardo di crescita intrauterina, il basso peso alla nascita, la prematurità, la nascita di un feto morto e la morte neonatale; infine sono state descritte malformazioni congenite quali l’anencefalia, l’ano imperforato e il labbro leporino.

Il controllo dell’ipertiroidismo con la terapia antitiroidea si accompagna a una notevole riduzione della frequenza di queste complicanze che è tanto maggiore quanto più precoce è l’inizio della terapia specifica (tab. 16).

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Per il trattamento delle forme di tireotossicosi determinate da assunzione di ormoni tiroidei esogeni o di iodio è sufficiente la sospensione di tali somministrazioni: le forme altrettanto rare causate dalla presenza di neoplasie trofoblastiche richiedono la loro asportazione.
Tutte le altre, quali il morbo di Basedow e i gozzi tossici, richiedono una terapia volta alla riduzione degli ormoni circolanti bloccando la loro sintesi o la loro dismissione: in gravidanza la scelta della linea terapeutica è determinata dalla presenza del feto e pertanto dal passaggio transplacentare dello iodio e dei farmaci impiegati.

IODIO RADIOATTIVO
L’uso dello iodio radioattivo rappresenta la terapia di prima scelta nei pazienti con recidiva dopo chirurgia tiroidea, in quelli con grave malattia concomitante e in quelli oltre 40 anni: lo scopo di questa metodica è di curare la malattia inducendo una tiroidite da radiazioni con conseguente distruzione delle cellule tiroidee.
Lo iodio radioattivo attraversa facilmente la barriera placentare, viene captato dalla tiroide fetale sin dalla 10ª settimana di gestazione e pertanto può comportare la sua distruzione: per tale motivo è assolutamente controindicato in gravidanza.
È possibile che tale sostanza venga somministrata erroneamente qualora la gravidanza, pur presente, non sia stata ancora accertata; se ciò avviene ai fini diagnostici la dose usata risulta troppo bassa per poter creare danni collaterali e non occorre intervenire; il feto potrebbe, invece, incorrere in danni anche gravi qualora l’assunzione dello iodio radioattivo fosse a dosaggio terapeutico e pertanto è consigliata la somministrazione alla madre di tionamide e ioduro per almeno 7 giorni

TIONAMIDI
La terapia con farmaci antitiroidei costituisce la prima scelta nel trattamento dell’ipertiroidismo in gravidanza.
I più usati appartengono al gruppo delle tionamidi e sono rappresentati fondamentalmente dal metimazolo e dal propiltiouracile. Agiscono attraverso l’inibizione della perossidasi, enzima responsabile dell’ossidazione dello ioduro, bloccano la formazione dello iodio organico e pertanto la formazione di mono- e diodiotironina.
Il propiltiouracile agisce anche a livello periferico inibendo la conversione del T4 in T3 ma ciò nonostante il metimazolo esplica un’azione più rapida e avendo una emivita plasmatica più lunga richiede una frequenza di somministrazione ridotta. Non bloccano il rilascio degli ormoni preformati e pertanto il raggiungimento dell’eutiroidismo si ottiene solo dopo almeno una settimana di trattamento.
Gli effetti collaterali gravi sono rari, meno dell’1%; sono costituiti soprattutto dall’agranulocitosi, dalla trombocitopenia e dalla vasculite.
Più frequenti, tra l’1 ed il 5%, sono quelli meno gravi: essi sono le manifestazioni cutanee tipo eruzioni cutanee, prurito e orticaria, febbre e dolore alle articolazioni, leucocitopenia transitoria ed epatopatia.
Ambedue i farmaci sono ormai considerati abbastanza sicuri in gravidanza anche se, attraversando facilmente la placenta, possono creare danni a carico del feto qualora usati a dosaggio elevato e/o non appropriato.
Non tutti gli autori sono concordi su quale dei due farmaci sia più opportuno utilizzare in gravidanza: si preferisce comunque il propiltiouracile che in virtù della sua minore liposolubilità e il suo maggior legame alle proteine sembra avere una minore capacità di passare la placenta rispetto al metimazolo.
Le dosi giornaliere massime consigliate sono 30 mg per il metimazolo suddivise in due somministrazioni e 300 mg per il propiltiouracile divise, invece, in tre somministrazioni: occorre sempre seguire la linea di condotta per cui il dosaggio deve essere quello più basso possibile per mantenere l’eutiroidismo. È accettabile anche mantenere la gestante in lieve ipertiroidismo.
Le dosi del farmaco vanno pertanto ridotte ogni qual volta le condizioni cliniche e i valori ormonali lo consentono.
Di solito si è propensi a continuare il trattamento per tutta la gravidanza anche a dosaggi molto bassi onde prevenire recidive.
Diversi autori invece preferiscono sospendere la terapia dopo un periodo di eutiroidismo ed eventualmente riprenderla e proseguirla, poi, per tutta la gravidanza. Se tale tentativo fallisse e l’ipertiroidismo si riattivasse, generalmente viene ridotta dopo il primo trimestre e interrotta durante il terzo trimestre.
Le tionamidi, come già segnalato, attraversano la placenta e pertanto, se usate a dosaggio elevato possono determinare ipotiroidismo e gozzo nel feto; comunque diversi studi hanno dimostrato che una corretta terapia non determina deficit della funzione cognitiva e della crescita somatica dei bambini esposti a questi farmaci nella vita intrauterina (tab. 17).

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La maggior parte delle pazienti possono essere seguite ambulatoriamente; qualora l’ipertiroidismo fosse molto grave e scoperto dopo la 28ª settimana di gestazione, è consigliabile il ricovero in quanto il rischio di complicanze materne e fetali è elevato.
Si è portati ormai ad escludere una possibile azione teratogena dei tireostatici: persistono comunque dati controversi su un possibile rapporto causa/effetto tra la somministrazione di metimazolo e l’insorgenza di aplasia cutis, forma morbosa caratterizzata dall’assenza di cute e relativi annessi in aree circoscritte di cuoio capelluto.

IODURO INORGANICO
Altro farmaco usato nella terapia dell’ipertiroidismo è lo ioduro inorganico (lugol) che ha la caratteristica di ridurre la captazione di iodio da parte della tiroide e inibire l’organificazione intraghiandolare dello ioduro.
Si caratterizza soprattutto per la sua azione inibente la secrezione di ormoni preformati e pertanto è di solito usato nelle crisi tireotossiche: di solito in associazione con le tionamidi in quanto la sua azione antitiroidea è transitoria.
Attraversa facilmente la placenta e nel feto non presenta il fenomeno di scappamento proprio delle persone adulte; ciò comporta che a dosi elevate può determinare danni anche prolungati a carico della tiroide del feto e del neonato quali gozzo e ipotiroidismo fetale-neonatale.
Il suo uso, pertanto, è di solito sconsigliato in gravidanza: va preso in considerazione solo nei casi di grave crisi tireotossica o per la preparazione all’intervento di tiroidectomia (ma non più di 5-7 giorni).

BETABLOCCANTI
I betabloccanti vengono utilizzati per ridurre la frequenza cardiaca qualora elevata; non hanno alcun effetto sulla sintesi degli ormoni tiroidei. Non hanno controindicazione in gravidanza ma è stato dimostrato che il loro uso prolungato può determinare ritardo nella crescita intrauterina.

TIROIDECTOMIA TOTALE
La chirurgia costituisce una terapia di seconda scelta e consiste nella tiroidectomia totale che ormai viene preferita a quella subtotale: le indicazioni sono date dalla presenza di un gozzo di grandi dimensioni e quindi con gravi sintomi compressivi a carico degli organi vicini, dall’intolleranza ai farmaci tireostatici e dalla loro inefficacia e dal riscontro di ipotiroidismo fetale in corso di terapia tireostatica necessaria per il controllo clinico materno.
In gravidanza è preferibile evitare questo intervento sia per gli eventuali effetti sul feto quali l’anossia, l’aborto od il parto prematuro sia per quelli a carico della madre costituiti soprattutto dall’alterazione del metabolismo calcio fosforico legato all’insorgenza di un eventuale ipoparatiroidismo.
Qualora la tiroidectomia fosse indispensabile è opportuno che venga eseguita all’inizio del 2° trimestre previa una corretta preparazione; la paziente dovrà, dopo l’asportazione della ghiandola, iniziare subito un trattamento sostitutivo con tiroxina per evitare l’insorgenza di un ipotiroidismo.

Si è detto precedentemente come siano molto rari i casi nei quali l’ipertiroidismo inizia in gravidanza e pertanto la maggior parte delle gestanti sono pazienti che hanno già una diagnosi di ipertiroidismo e sono già in terapia.
È pertanto opportuno che le donne fertili ipertiroidee pianifichino le loro gravidanza seguendo alcune direttive:
–    se si assumono tireostatici attendere l’eutiroidismo a bassi dosaggi del farmaco;
–    attendere almeno un anno da un eventuale trattamento metabolico con iodio radioattivo;
–    in caso di tiroidectomia attendere che la terapia sostitutiva porti a un eutiroidismo stabile e siano stati corretti gli effetti di un eventuale ipoparatiroidismo.
L’uso delle tionamidi non controindica l’allattamento in quanto passano nel latte materno in basse quantità.
È stato segnalato che nelle 24 ore la percentuale di metimazolo escreta nel latte è appena di circa 0,47%: quello del propiltiouracile è ancora più basso (0,07%) ed è anche per tale motivo che, alcuni, preferiscono l’utilizzo di questo farmaco per la terapia dell’ipertiroidismo in gravidanza.
Diversi studi clinici hanno dimostrato che neonati allattatti al seno dalle madri che assumevano sino a 10 mg di metimazolo o 150 mg di propiltiouracile non presentavano alterazioni dei livelli di TSH e FT4.
È comunque opportuno, per maggior prudenza, che il farmaco venga assunto in modo più frazionato e che il neonato venga sottoposto a frequenti controlli bioumorali.

NODULO TIROIDEO
Il nodulo costituisce la patologia tiroidea più frequente. Colpisce soprattutto la donna con una percentuale di circa il 6% nelle popolazioni senza carenza iodica mentre essa è molto più alta (circa il 15%) nei paesi, come l’Italia, affetti da deficit nutrizionale di iodio.
Questi dati, però, sono verosimilmente sottostimati in quanto non diagnosticati per la mancanza di sintomatologia: infatti è descritta la presenza di noduli tiroidei nel 50% di persone sottoposte a riscontro autoptico.
Questa asintomaticità comporta che spesso viene fatta diagnosi di patologia nodulare della tiroide proprio durante la gravidanza, quando i controlli medici sono più accurati; va anche evidenziato che la gestazione di per se stessa è gozzigena e pertanto può mettere in maggior evidenza un nodulo già preesistente.
I noduli tiroidei si possono presentare singoli ma più spesso sono multipli configurando il quadro di gozzo multinodulare. Solo una minoranza (circa il 5%) sono maligni (tab. 18).

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Da un punto di vista anatomo-patologico i noduli singoli si distinguono in:

•    solidi benigni
L’adenoma follicolare è sicuramente il più frequente, nella variante micro (follicoli piccoli e con poca colloide), macro (follicoli dilatati e voluminosi) ed embrionale (struttura primitiva con pochissima colloide). Sono neoformazioni costituite da aree ben circoscritte di iperplasia ghiandolare a componente colloidale più o meno abbondante, con architettura uniforme e ordinata, con poche mitosi, circondati da una capsula intatta. Non mostrano segni di invasività né danno metastasi.
A secondo della loro capacità di captare radioiodio e quindi essere funzionanti e secernere ormone si distinguono in caldi e freddi. I primi si accompagnano spesso a una sintomatologia di ipertiroidismo mentre quelli freddi (circa il 90% dei casi) sono invece completamente asintomatici.
Raramente si sviluppano sino a dimensioni tali da determinare compressione meccanica su trachea ed esofago come può avvenire nelle forme multinodulari.

•    cisti
Formazioni benigne, rappresentano dal 7 al 20% dei noduli solitari della tiroide a carico della tiroide. Possono avere contenuto sierico, emorragico o simile ad acqua di roccia. Spesso sono formazioni pseudocistiche vale a dire aree a contenuto liquido in noduli solidi.

•    infiammatori
Sono formazioni benigne che insorgono nell’ambito di infiammazioni acute e croniche della ghiandola tiroidea: di solito hanno l’aspetto di “pseudonoduli”. Tipici sono quelli che compaiono nella tiroidite di Hashimoto, dove sono l’espressione macroscopica dell’infiltrazione linfocitaria, o nella tiroidite subacuta, dove il processo infiammatorio tende alla formazione di granulomi.

•    neoplastici maligni primitivi
Sono i tumori endocrini maligni più frequenti e rappresentano la seconda causa di morte per tumore maligno dopo il carcinoma ovarico.
Sono classificati in 4 istotipi: papillare, follicolare, midollare e anaplastico (tab. 19).

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Il papillare ed il follicolare sono definiti anche differenziati e originano dalle cellule epiteliali follicolari tiroidee; il papillare è in assoluto il più frequente e rappresenta il 50-70% di tutti i carcinomi tiroidei seguito dal follicolare che rappresenta il 15-25%; pertanto, i carcinomi differenziati sono responsabili del 70-90% di tutti i tumori della tiroide.
Il papillare è senza dubbio il tumore più frequente nelle donne in età fertile e pertanto quelli più frequenti in corso di gravidanza. È anche la forma più benigna metastatizzando per via linfatica e raramente per via ematica a distanza (ossa e polmone).
Il follicolare colpisce di solito in età più adulta e pertanto sono abbastanza rari in gravidanza: è più frequente nelle aree a carenza iodica e metastatizza per via ematica.
Il carcinoma midollare, nelle varianti sporadica e familiare, origina dalle cellule parafollicolari e secerne calcitonina. La forma sporadica è, in assoluto, la più frequente ma, insorgendo di solito nel quinto/sesto decennio di vita, è di difficile riscontro nelle gestanti; la familiare, più rara, spesso associata a tumori di altre ghiandole endocrine nell’ambito della poliendocrinopatia neoplastica multipla, mostrando un picco di insorgenza nel secondo/terzo decennio, può più frequentemente interessare donne in gravidanza. La via di metastatizzazione è sia linfatica che ematica.
Il carcinoma anaplastico è estremamente maligno ma raramente compare in età fertile in quanto insorge di solito in soggetti con più di 60 anni. Origina in genere da un tumore della tiroide, adenoma o carcinoma differenziato, o da un gozzo di vecchia data. Metastatizza localmente ai linfonodi laterocervicali, negli organi adiacenti, e a distanza alle ossa, al polmone, al cervello e al fegato.

•    neoplastici maligni secondari
I linfomi e metastasi tiroidee da neoplasie di altri organi vengono menzionati per completezza ma sono estremamente rari in età fertile.
A conclusione vale la pena ulteriormente precisare che nelle donne giovani la maggior parte dei carcinomi tiroidei sono neoplasie papillari differenziate e scarsamente aggressive.
L’iter diagnostico del nodulo tiroideo ha soprattutto lo scopo di differenziare tra malignità e benignità della patologia e valutare la gravità di eventuali fenomeni compressivi che possono portare a un’indicazione chirurgica.
La diagnosi differenziale si basa sull’anamnesi, sull’esame obbiettivo e sulle indagini di laboratorio e strumentali (fig. 4).

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Un’accurata raccolta anamnestica è di estrema importanza: la comparsa di un nodulo in donne residenti in zone caratterizzate da carenza iodica orienta per la presenza di una lesione benigna cosi come la comparsa con estrema rapidità e dolore per la presenza rispettivamente di una emorragia o cisti o un nodulo infiammatorio; devono invece orientare per la forma maligna una familiarità positiva per carcinoma tiroideo e una storia pregressa di irradiazione al collo.
Alcuni dati evidenziabili dall’esame obbiettivo possono indirizzare verso il sospetto della presenza di una formazione maligna: un aumento di volume di un lesione preesistente nonostante la terapia soppressiva di L-tiroxina, la consistenza dura, la fissità ai piani profondi, il rilievo di una linfoadenopatia laterocervicale, la comparsa di disfonia. Segni clinici di ipertiroidismo devono invece orientare per un nodulo benigno (adenoma tossico).

La determinazione degli ormoni liberi circolanti e del TSH è di poca utilità per la diagnosi differenziale circa la benignità o meno del nodulo: un abbassamento del TSH e un aumento dell’FT4 e soprattutto dell’FT3 orienta per la presenza di un adenoma tossico mentre un aumento del TSH per la presenza di un nodulo infiammatorio. Il dosaggio della tireoglobulina spesso è aumentata anche se occorre far presente che essa può risultare aumentata anche nelle forme di patologia nodulare diffusa. Il rilievo di valori elevati di calcitonina permette di diagnosticare un carcinoma midollare. Di scarsa importanza la positività o meno degli anticorpi antitiroidei volti a evidenziare la presenza di una autoimmunità.
Dal punto di vista delle indagini strumentali va innanzitutto precisato che la scintigrafia tiroidea in gravidanza è controindicata e pertanto la valutazione del nodulo deve prescindere dalla distinzione tra freddo e caldo.

Lo studio ecografico risulta l’esame di prima scelta nelle tireopatie nodulari in gravidanza per la sua facilità di esecuzione e per l’assoluta assenza di rischi radiologici. Tale metodica permette innanzitutto di conoscere le caratteristiche del nodulo (solido, liquido o misto); non fornisce invece alcun elemento capace di fare una diagnosi sicura sulla natura del nodulo ma la sua ipoecogenità, la presenza di calcificazioni e di vascolarizzazione intranodulare orientano maggiormente per la presenza di un carcinoma.
L’esame citologico mediante agoaspirazione con ago sottile del tessuto tiroideo (FNA) fornisce una diagnosi sulla natura della lesione ed è quindi indicato per stabilire la benignità o malignità di un nodulo tiroideo. È una tecnica estremamente semplice e non presenta alcuna controindicazione in gravidanza.

Come regola generale tutti i noduli superiori ad 1 cm dovrebbero essere sottoposti ad agoaspirazione.
L’FNA è fondamentale per porre diagnosi di carcinoma papillare, midollare e anaplastico con una accuratezza diagnostica maggiore del 90%: invece, per le neoplasie follicolari e i noduli a cellule di Hurthle è ampiamente riconosciuta la difficoltà di differenziare le forme benigne da quelle maligne.
La condotta terapeutica è strettamente legata all’esito dell’esame citologico che distingue il nodulo in benigno, maligno ed a citologia non dirimente.

•     Benigno
Tra gli endocrinologi non vi è una linea di condotta univoca.
Qualora la paziente non sia già in trattamento, alcuni, in considerazione dell’innocuità della terapia con L-tiroxina e dell’azione gozzigena della gravidanza, reputano opportuno iniziare subito la terapia soppressiva del TSH già durante la gestazione onde evitare preventivamente un ulteriore aumento di volume della lesione e la formazione di altri noduli; altri, invece, reputano più idonea la sola osservazione e non concordano sul trattamento preventivo e preferiscono intervenire con la l-tiroxina solo qualora la lesione dovesse effettivamente aumentare significativamente di volume.

•    Maligno
La terapia medica soppressiva con L-tiroxina va iniziata immediatamente: ad essa deve necessariamente associarsi quella chirurgica di tiroidectomia totale.
I tempi di esecuzione dell’intervento saranno determinati soprattutto dal tipo di carcinoma presente, al fine di creare i minori rischi al feto e alla madre.
Qualora si tratti di carcinoma papillare, in considerazione del fatto che ha una crescita molto lenta, che la gravidanza non sembra modificare la sua storia naturale e che metastatizza raramente, se non vi sono metastasi linfonodali e se il nodulo è di dimensioni modeste (al di sotto di 1,5 cm) la tiroidectomia non deve essere considerata con carattere di urgenza e può essere rimandata a dopo il parto. Se, invece, la lesione dovesse essere di dimensioni maggiori si è orientati a eseguire l’intervento qualora la diagnosi fosse fatta entro il 2° trimestre e a procrastinarlo a dopo il parto se essa viene fatta dopo la 24ª settimana per il rischio elevato di parto prematuro.
I carcinomi anaplastici e i linfomi richiedono un trattamento chirurgico e chemioterapico molto celere e costituiscono l’unica indicazione all’interruzione della gravidanza.

•    Dubbio
Questa eventualità avviene, come è stato precedentemente segnalato, nei casi di carcinoma follicolare e qualora con la FNA non si riesca a ottenere materiale adeguato per la scarsa presenza di cellule per fenomeni degenerativi e/o fibrotici. In questi casi la condotta terapeutica è attendista e segue le linee descritte per la forma papillare.
Sembra ormai accertato che le donne che hanno subito un intervento di tiroidectomia per carcinoma tiroideo e successivo trattamento con radioiodio, se trattate adeguatamente non presentano rischi particolari per una nuova gravidanza né per problemi genetici né per eventuali aborti: comunque è indispensabile attendere almeno un anno dal trattamento metabolico e il raggiungimento di un controllo ottimale della terapia soppressiva con l-tiroxina.

TIROIDE E POST-PARTUM
Nel corso del primo anno dopo il parto circa il 5-10% delle donne va incontro a una alterazione dell’equilibrio ormonale della tiroide (ipo o ipertiroidismo).
Le principali cause di tale disfunzione sono la sindrome di Sheehan, l’ipofisite autoimmune, il morbo di Basedow del post-partum e la tiroidite post-partum.
La sindrome di Sheehan è anche definita “infarto ipofisario”: è causata da un processo di necrosi ischemica a carico dell’ipofisi come conseguenza di un eccessivo sanguinamento e alla conseguente ipotensione al momento del parto.
Il meccanismo di questa necrosi non è ancora del tutto chiarito anche se si ritiene che questa condizione sia legata a un processo di vasospasmo dei vasi ipofisari; non è noto se le modificazioni dell’ipofisi durante la gravidanza, con il suo marcato incremento volumetrico sotto l’influenza dell’aumentata increzione estrogenetica, costituiscano una aumentata sensibilità dell’ipofisi agli stimoli vasoattivi oppure se la ghiandola divenga più vulnerabile all’ipossia.
È divenuta ormai molto rara nel mondo occidentale soprattutto grazie al miglioramento dell’assistenza ostetrica in corso di parto.

Il deficit di secrezione di TSH comporta un ipotiroidismo che comunque non raggiunge mai la stessa intensità delle forme primitive e pertanto non porta mai alla formazione di gozzo; è accompagnato a un quadro clinico variabile di ipopituitarismo in quanto determinato dall’entità della lesione ipofisaria e pertanto dall’insufficienza delle varie ghiandole bersaglio.
I segni clinici caratteristici sono la mancanza della montata lattea, l’astenia e la facile stancabilità, la mancanza della ricomparsa del ciclo mestruale, la riduzione dei peli pubici e ascellari e l’ipotensione.
La terapia si base sulla somministrazione a dosi sostitutive della l-tiroxina e degli altri ormoni deficitari.

Ancora più rara è l’ipofisite autoimmune linfocitaria. È un processo infiammatorio a carico dell’ipofisi, su base autoimmunitaria, caratterizzato da una focale o diffusa infiltrazione policlonale linfocitaria.
La storia naturale di questa patologia è la progressione dell’infiammazione sino alla fibrosi e alla completa atrofia della ghiandola.
Colpisce le donne durante il 2° o 3° trimestre di gravidanza e nei primi sei mesi dopo il parto.
Clinicamente si caratterizza per la presenza di cefalea e di disturbi visivi per la compressione sul chiasma ottico.
Dal punto di vista endocrino, come la sindrome di Sheehan, oltre alle manifestazioni proprie dell’ipotiroidismo si evidenziano quelle relative ai deficit delle varie ghiandole bersaglio determinato dal grado dell’ipopituitarismo.
Anche in questa forma il trattamento è volto a sostituire gli ormoni eventualmente deficitari.

Spesso il morbo di Basedow compare per la prima volta entro l’anno successivo alla gravidanza.
Indagini epidemiologiche condotte in Svezia hanno dimostrato che più della metà delle donne basedowiane in età fertile hanno presentato per la prima volta la malattia nel periodo dopo il parto. È verosimile che ciò sia da addebitare alla esacerbazione immunitaria secondaria alla gravidanza, anche se assolutamente normale, o a un aborto.
Il periodo di insorgenza non caratterizza il quadro clinico e pertanto si rimanda a quanto descritto precedentemente.
La causa più comune di disfunzione tiroidea nel periodo dopo il parto è costituita dalla cosiddetta tiroidite post-partum (PPT).
È un processo infiammatorio autoimmunitario che si manifesta in genere entro i sei mesi dal parto anche se sono stati descritti casi di insorgenza fino a 18 mesi di distanza.
Compare di solito dopo una gravidanza a termine anche se sono descritti casi successivi ad aborto.

Molti autori ipotizzano che possa trattarsi di una variante della tiroidite di Hashimoto: comunque è la stessa entità clinica della tiroidite silente o indolore differenziandosi solo per il periodo di insorgenza.
Si associa con gli antigeni di istocompatibilità (HLA-DR4) comuni ad altre malattie autoimmuni.
In Italia si manifesta in una percentuale di circa l’8%. Nelle diverse nazioni tale percentuale è molto variabile (tra l’1 e il 16%): l’oscillazione così ampia è determinata fondamentalmente dal fatto che la patologia ha un decorso transitorio e pertanto è evidenziabile solo se esiste un’abitudine culturale allo screening della funzione tiroidea nei 3-9 mesi dopo il parto.

I fattori di rischio più importanti sono costituiti da:
–    familiarità positiva per malattie autoimmuni;
–    presenza di elevati anticorpi anti-TPO in gravidanza;
–    presenza di diabete mellito tipo 1: queste donne hanno una possibilità 4 volte maggiore di quelle non diabetiche di andare incontro alla PTT;
–    comparsa di una PTT dopo una precedente gravidanza: una percentuale di circa il 70% delle donne che hanno avuto un episodio di PPT in una precedente gravidanza vanno incontro a un nuovo episodio della malattia.
Il meccanismo patogenetico consiste nel fatto che durante la gravidanza si sviluppa uno stato di depressione immunologica che raggiunge il massimo verso l’ultimo trimestre di gravidanza; dopo il parto si ha un rebound immunologico con un inasprimento dei meccanismi dell’autoimmunità tiroidea umorale e cellulare.

Il quadro clinico è caratterizzato di solito da due fasi:
•    la tireotossica: è determinata dall’immissione in circolo di ormoni tiroidei preformati che fuoriescono dai follicoli per il processo infiammatorio. Compare di solito verso il 2°-3° mese dal parto. Di solito dura 1-6 settimane; meno dell’1% delle donne sviluppa un ipertiroidismo permanente.
La diagnosi si basa sulla determinazione dei livelli di FT3 e FT4 che risultano moderatamente aumentati: il rapporto FT4/FT3 è di solito aumentato a differenza di quello che accade nel Basedow. Il TSH invece risulta significativamente ridotto. Nella maggior parte delle pazienti gli anticorpi anti-TPO e anti-TG risultano elevati. La captazione tiroidea è bassa e anche questa indagine permette una diagnosi differenziale dal Basedow dove invece essa è molto elevata (tab. 20).
La sintomatologia è di solito lieve anche se possono essere presenti tachicardia, tremori e facile stancabilità.
Per quanto riguarda la terapia, poiché questa fase è caratterizzata da una breve durata e da una sintomatologia modesta, non sono necessari i farmaci tireostatici ma di solito sono sufficienti piccole dosi di betabloccante tipo propanololo;
•    l’ipotiroidea: si sviluppa da 4 a 8 mesi dopo il parto.
Anche questa fase è di solito transitoria: dura in genere 2-6 settimane anche se il 20-30% dei casi va incontro a un quadro stabile di ipotiroidismo.
È più sintomatico della precedente: si caratterizza per la presenza di profonda astenia, stipsi, aumento di peso, intolleranza al freddo ma soprattutto per la comparsa di una depressione di grado rilevante.
I valori degli ormoni liberi sono normali o ridotti mentre il TSH risulta significativamente elevato.
Anche in questa fase i sintomi possono essere così lievi da non rendere necessaria alcuna terapia. Il trattamento sostitutivo con LT4 invece risulta assolutamente necessario nei casi in cui l’ipotiroidismo dovesse essere più persistente di quello che avviene nella norma tenendo sempre presente che a distanza di un anno dal parto occorre tentare la sua sospensione.
In circa il 38% dei casi la malattia si può presentare nella sola fase tireotossica senza il successivo ipotiroidismo così come nel 36% si può avere solo un ipotiroidismo isolato (fig. 5).

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Nel postpartum possono insorgere diversi quadri depressivi:
–    demoralizzazione caratterizzata da lieve disturbi dell’umore che si risolve spontaneamente in alcune settimane; colpisce il 75-80% delle donne;
–    depressione con i disturbi tipici di tale quadro psichico; è più prolungato del precedente e spesso necessita di terapia specifica; colpisce circa il 10-15% delle donne;
–    psicosipuerperale che si manifesta con gravi sintomi depressivi e allucinazioni e può portare al suicidio e/o all’infanticidio; colpisce circa una donna su 1.000.
Diversi studi hanno evidenziato una correlazione tra depressione e funzionalità tiroidea. È stato dimostrato che disturbi depressivi compaiono in alta percentuale in donne che durante la gravidanza sono andate incontro a bassi valori ormonali tiroidei anche senza entrare nel quadro conclamato di ipotiroidismo e che, soprattutto, presentavano anticorpi antitiroidei.

Non è ancora chiaro il meccanismo responsabile dell’associazione tra tiroidite autoimmune, ipotiroidismo e depressione; si è ipotizzato che alla base vi sia un’azione lesiva sugli specifici recettori dei neurotrasmettitori da parte delle citochine liberate con l’attivazione leucocitaria nel corso della patologia autoimmune tiroidea.


IL PROTIDOGRAMMA ELETTROFORETICO

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Nel nostro organismo componenti fondamentali necessarie per regolare le diverse funzioni sono le proteine: gruppo complesso di molecole che include numerose sostanze con svariate proprietà (ormoni, enzimi, anticorpi, molecole di struttura, recettori di membrana e così via).

Nella pratica clinica è ormai di routine eseguire la protidemia e l’elettroforesi delle proteine. Le proteine rappresentano i costituenti base delle cellule, animali e vegetali. Analizzate da un punto di vista chimico sono polimeri formati da residui di aminoacidi tra loro uniti con legame peptidico. Le proteine vanno intese come strutture tridimensionali, variamente orientate nello spazio. In senso lato si può dire che ad ogni proteina è associabile una ben definita funzione biologica. Talora anche modifiche limitate nella struttura di una proteina ne alterano le proprietà biologiche. Utilizzando una semplice distinzione possiamo dividere le proteine con struttura globulare e quelle con struttura fibrosa, con funzioni generalmente di tipo biomeccanico.

Uno dei pionieri nello studio delle proteine, al quale fu conferito il premio Nobel per la chimica nel 1948, è stato Arne Wilhelm Kaurin Tiselius (Stoccolma, 10 agosto 1902 – Uppsala, 29 ottobre 1971) un biochimico svedese.

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Ottenuto il dottorato nel 1939 con studi sull’elettroforesi delle proteine, continuò successivamente ad approfondire questo tipo di ricerca sviluppando alcuni metodi di indagine molto accurati per l’analisi elettroforetica.
La valutazione delle proteine totali nel sangue o, più comunemente protidemia (valori normali compresi tra 6 e 8 g/100 ml) è uno dei classici esami di routine e assume un importante significato indicativo delle condizioni di salute in generale. Utilizzando particolari metodi di separazione (l’elettroforesi) è possibile determinare la distribuzione di alcune frazioni proteiche, differenziando i varti tipi di gruppi di proteine che formano il pool complessivo.

Una prima, grossolana, ma importante differenziazione, include l’albumina (che presiede al mantenimento della pressione osmotica del sangue impedendo che il sangue non diffonda attraverso le pareti dei vasi sanguigni), le alfa globuline (gruppo di proteine la cui produzione aumenta considerevolmente nelle prime fasi del processo infiammatorio) e le gammaglobuline (che svolgono un ruolo importante nella difesa dell’organismo contribuendo all’eliminazione dei microrganismi patogeni responsabili di varie malattie infettive). Le diverse proteine vengono prodotte in gran parte dal fegato e le immunoglobuline, responsabili di un aspetto dell’immunità umorale, derivano da cellule specializzate del sistema immunitario (i linfociti B).
L’elettroforesi si esegue utilizzando un campo elettrico: nel campo elettrico le proteine migrano a distanze differenti, formando raggruppamenti che possono essere espressi con una curva che presenta oscillazioni o picchi in corrispondenza dei cinque tipi di proteine separate durante la migrazione: albumina (valore di riferimento percentuale 55-70%), alfa-1-globulina (1,5-4,5%), alfa-2-globulina (5-11%), betaglobuline (6,5-12%), gammaglobuline (10-20%).

La forma del tracciato elettroforetico di un individuo sano ha un andamento tipico, con un “picco” formato dalla migrazione delle molecole di albumina e una distribuzione “ondulante” delle altre frazioni:

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Con il protidogramma ottenuto dopo separazione elettroforetica si osserva una distribuzione frazionata delle proteine del siero. La morfologia del tracciato, con l’innalzarsi di alcune frazioni o con la forma di certe immagini caratteristiche consente, già in prima approssimazione, di identificare anomalie della composizione e/o della distribuzione delle proteine.

Calcolando le differenze percentuali sulla base della protidemia (peso delle proteine per unità di volume) abbiamo anche la possibilità di una valutazione quantitativa (in grammi o frazione di grammo) delle diverse componenti separate dopo l’applicazione del campo elettrico. Le frazioni, come abbiamo visto sono 5, ma possono essere anche 6 (se dividiamo il gruppo b in b1 e b2).Ovviamente le proteine del sangue sono migliaia e quindi il protidogramma ha una “forza” informativa limitata, ma è molto importante dal punto di vista clinico e talora consente diagnosi immediate e definitive.
Sappiamo che nella distribuzione delle diverse proteine ci sono alcune componenti note, che si distribuiscono tra albumina e frazione gamma. Questa distribuzione è così riassumibile: dalle albumine (situate sul versante del polo positivo) in direzione del polo negativo si concentrano orosomucoide e alfa1 antitripsina, con antichimotripsina, ceruloplasmine, alcune globuline (frazione a1), macroglobuline, aptoglobina, alfa-lipoproteine (frazione a2), transferrina, plasminogeno, fibronectina, beta lipoproteine (frazione b: la componente b1 è data essenzialmente dalla transferrina – proteina che trasporta il ferro all’interno dell’organismo –, la b2 contiene invece le beta-lipoproteine, che trasportano i grassi nel sangue, gammaglobuline o frazione gamma).

La più tipica forma patologica immediatamente riconoscibile nel tracciato elettroforetico delle proteine è la gammopatia. Più ingenerale se aumenta la frazione delle gammaglobuline la curva che le rappresenta “cresce” e occupa uno spazio più ampio se confrontata con le altre frazioni. L’incremento della frazione gamma a carattere policlonale è tipico di un processo infiammatorio/infettivo. Questa frazione comprende immunoglobuline e quindi se l’organismo è impegnato in corso di una malattia infettiva l’aumento della frazione gamma corrisponde abbastanza bene all’andamento della risposta immunitaria.
Studiando il protidogramma fu possibile, nel 1952, a Ogden Bruton, identificare soggetti non in grado di rispondere alle infezioni. Egli descrisse la così detta agammaglobulinemia di Bruton: in sostanza bambini che si ammalavano con frequenza e con grave impegno clinico, che guarivano con l’uso degli antibiotici ma che ricadevano nel medesimo processo patologico alla sospensione degli antibiotici, bambini nei quali l’andamento recidivante del fenomeno patologico avrebbe fatto ritenere logico un incremento della frazione gamma, invece avevano una curva piatta. Se ne poteva dedurre che la produzione di anticorpi era quasi assente o molto ridotta, senza che il bambino fosse in grado di difendersi.
Anche ai nostri giorni, senza ricorrere necessariamente a indagini complesse, almeno in prima istanza, è possibile fare diagnosi di agammaglobulinemia osservando il protidogramma e analizzando segni e sintomi del paziente, con particolare riferimento a un’anamnesi accurata.

Un’altra immagine clinicamente importante è espressa dalla gammopatia monoclonale.

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In questo caso, come si evince dall’immagine nella pagina, compare un picco molto stretto che somiglia alla configurazione del picco albuminico. È un’immagine purtroppo indice di malattia neoplastica, il mieloma. In questa patologia del sangue alcune cellule, i linfociti B, producono grandi quantità di un solo tipo di anticorpo (monoclonalità).
Un quadro di questo tipo, talora osservabile senza che siano manifesti segni o sintomi clinici importanti, implica l’obbligo di accertamenti immediati in senso ematologico. Non sempre un picco monoclonale ha un significato clinico così impegnativo: in alcune circostanze, valutate caso per caso ma sempre dopo videat ematologico/immunologico, è necessario indagare ulteriormente sulle cause (per esempio la presenza di infezioni croniche) e può essere sufficiente un accurato monitoraggio nel corso del tempo.

Nella valutazione del protidogramma dobbiamo considerare anche le altre variazioni possibili come segue:

•    albumina (normale se il valore in grammi è compreso tra i 3,7 e i 5,5); se la sua percentuale diminuisce, significa che le altre proteine, per differenza, sono aumentate e questo potrebbe orientare il medico verso ulteriori approfondimenti relativamente a malattie infiammatorie o a una malattia preoccupante come il mieloma. Se diminuiscono sia la sua percentuale sia la quantità in peso, probabilmente il fegato non è in grado di svolgere in modo corretto la sua funzione di produzione delle proteine (quadro riscontrato in alcune epatopatie e in particolare nella cirrosi epatica, malattia con grave e irreversibile anomalia delle cellule del fegato e conseguente perdita delle sue funzioni);
•    α1-globuline: se percentuale o quantità aumentano rispetto ai valori normali, l’alterazione indica un processo infiammatorio o una probabile infezione in corso all’interno dell’organismo;
•    α2-globuline: se la percentuale o quantità aumentano rispetto ai valori normali, l’alterazione, come per le α1-globuline, indica un processo infiammatorio o una infezione in corso;
•    b-globuline: se percentuale o quantità aumentano rispetto ai valori normali, l’alterazione può essere un segnale di anemia perché tra le b-globuline è presente la transferrina, che aumenta quando il ferro nell’organismo è basso;
•    g-globuline: abbiamo già descritto il caso dell’agammaglobulinemia; se invece si osserva un aumento delle gammaglobuline in forma policlonale è in corso un processo infiammatorio (acuto o cronico), se aumenta una frazione con carattere di malattia monoclonale in forma elevata la diagnosi probabile è quella di plasmocitoma o mieloma multiplo; se il piccolo monoclonale è limitato ci si trova di fronte a una gammopatia monoclonale talora di incerto significato (il quadro delle forme “minori” di gammopatia monoclonale è abbastanza diffuso e si associa a malattie infettive o infiammatorie a carattere cronico): l’andamento può migliorare con l’evolvere della malattia di base, ma è comunque necessario un accurato monitoraggio.